«Non hanno fame, non hanno
sete, non hanno sonno e
non hanno freddo». Le crocerossine
italiane, o meglio
le infermiere volontarie del
Corpo della Croce Rossa italiana,
sono donne tutte d’un
pezzo. Addestrate a portare
aiuto e conforto anche nelle situazioni più
estreme. Senza mai tradire la fatica e la paura
che pure condividono con le persone cui prestano
soccorso.
«Vengono qui volontariamente, nessuno le
costringe. E dunque, se vengono, devono dare
il meglio di sé. È una “chiamata” che parte dal
cuore, arriva alla mente e torna a dare dal più
profondo dell’anima. Se non si è disponibili ad
amare, confortare, lavorare e salvare – come ricordano
le parole del nostro motto – è meglio
lasciar perdere».
Monica Dialuce Gambino, dal 2014 ispettrice
nazionale del Corpo, parla orgogliosa
delle sue infermiere. Pronte a partire in qualunque
momento per arrivare nelle situazioni
di emergenza. Gli occhi di un azzurro limpido,
accoglienti e duri nello stesso tempo, dicono di
una severità che è, insieme, passione e disciplina
per far sì che tutto funzioni al meglio e che
le crocerossine siano sempre affidabili in ogni
ambito in cui sono chiamate a prestare la loro
opera. Coinvolte anche nei soccorsi del recente
terremoto, le infermiere volontarie, di ogni
estrazione sociale e provenienza geografica,
entrano a far parte del Corpo dopo 2 mila
ore di formazione – tra ospedale e teoria –
distribuite su due anni e regolamentate da un
decreto del ministro della Salute. Per arrivare
a indossare la croce rossa sull’uniforme bianca
(azzurra quella di servizio) si impegnano al
massimo sacricando – del tutto gratuitamente
– il proprio lavoro e la propria vita personale.
Dal 1908, anno in cui furono formalmente
fondate grazie all’intuizione di Elena di Savoia,
si tramandano un modo di essere e di fare che le
ha rese un punto di riferimento in ambito militare
e civile. Ausiliarie delle forze armate e impegnate
sulle navi per assistere gli immigrati,
nelle operazioni di peacekeeping, ma anche
in ambito civile sulle piste da sci o in mare
per il recupero di chi si perde con la barca o il
canotto, impiegate per il trasporto di organi e
per l’ippoterapia, per insegnare alle mamme le
manovre di disostruzione che possono salvare
la vita ai loro figli, per dare collaborazione alla
Protezione civile durante le calamità naturali.
Sono animate dalla passione, come le prime
600 che partirono, in testa la regina Elena di Savoia,
dal Piemonte fino in Sicilia per soccorrere i
terremotati di Messina. In tempi in cui le donne,
persino per frequentare i corsi da infermiera,
avevano bisogno della firma maritale
o del padre, in 8 mila andarono ovunque per
curare i feriti della Prima guerra mondiale, quelli
della campagna di Russia – rifiutandosi di
tornare per non lasciare i loro pazienti –, furono
presenti, con la regina Maria José, nella campagna
d’Africa, in Abissinia. Finirono anche nei
campi di concentramento e, seppure la croce che
hanno sulla divisa dovrebbe garantire loro immunità,
hanno pagato con il sangue – anche in
tempi recenti – la loro dedizione agli altri.
PROFONDA PASSIONE
Circa 20 mila, di cui 9.500
impegnate quotidianamente per almeno quattro
ore al giorno, regalano al Paese il loro tempo
e la loro competenza. «Il nostro è un impegno
del tutto gratuito», sottolinea la Dialuce, «ispirato
soltanto ai nostri sette princìpi: umanità,
imparzialità, neutralità, indipendenza, volontariato,
unità e universalità. Chi chiede di entrare
nel Corpo delle infermiere lo fa spinto da
una profonda passione per l’altro».
Il 30 novembre scade il termine per presentare
domanda per poter essere ammesse al corso
che comincerà in gennaio, «un addestramento
duro al termine del quale, per chi lo supera,
c’è la cerimonia della lampada – a ricordo di
Florence Nightingale che, durante la guerra in
Crimea, illuminava i pazienti con una lampada
a olio – e, finalmente, la croce rossa e i gradi si
possono mettere sulla divisa. Da quel momento
le sorelle sono pienamente in servizio».
Fanno domanda in tante, «di tutte le estrazioni
sociali e di tutti i lavori, dall’avvocato
all’impiegata, alla casalinga. E sanno che, una
volta entrate nel Corpo, sacrificheranno le loro
ferie, il loro tempo libero, il tempo dedicato a
figli e famiglia». Perché si sentono chiamate
a una missione che è sintetizzata già nel loro
nome: sorella per abolire i titoli nobiliari e accademici,
sorella per trattare ciascuno da pari
a pari, sorella per dire che ci sono sempre e comunque
al fianco di tutti.
(Nella foto: una crocerossina in parata a Roma durante la Festa della Repubblica - Ansa, 2 giugno 2010)