Era vicina la Pasqua giudaica del
57. Paolo, l’apostolo di Gesù Cristo,
aveva da poco ricevuto nella splendida
Efeso, sulla costa dell’Asia
Minore, una comunicazione proveniente
dalla città greca di Corinto.
Gliel’avevano trasmessa alcuni
funzionari di una donna “manager”,
Cloe, una cristiana corinzia che aveva una filiale della sua azienda anche a Efeso.
Le notizie
erano piuttosto allarmanti: la comunità di
Corinto si stava lacerando e sfaldando in sette
e fazioni opposte fra loro. Paolo aveva deciso
di dettare subito una lunga missiva che sarebbe
divenuta la Prima Lettera ai Corinzi, firmata
di suo pugno (16,21).
Ebbene, quasi al termine di quelle pagine,
l’apostolo aveva voluto evocare un Credo cristiano,
anzi, la più antica professione di fede
della cristianità. Era stato attorno all’anno 40
che Paolo, appena convertito alla nuova religione,
aveva imparato dai suoi primi maestri
nella fede cristiana quel “Credo”. Lo afferma
lui stesso scrivendo così ai Corinzi: «Vi ho
trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto:
Cristo morì per i nostri peccati
secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto
il terzo giorno secondo le Scritture
e apparve...» (1Corinzi 15,3-5).
In queste righe è raccolto il cuore
dell’intero Nuovo Testamento, su cui
idealmente si intesseranno tutte le
138.020 parole greche che compongono
i 27 scritti “canonici” del cristianesimo:
è quella che noi chiamiamo la
Pasqua di Cristo. Essa, come è evidente
da questo “Credo” primordiale, comprende
due elementi fondamentali,
la morte e la risurrezione di Gesù
di Nazaret. Innanzitutto la morte,
una morte reale, sigillata dalla pietra
tombale della sepoltura. In questa prima
componente si riassume tutta la
nostra Settimana Santa con la trama
drammatica della Passione di Cristo.
Attraverso il dolore e la morte egli rivela
la sua fraternità con noi, la sua
umanità vera e concreta.
È per questo che gli evangelisti
sono attenti a registrare tutta la gamma
delle prove a cui è sottoposto. C’è la
paura della morte incombente («Padre,
se è possibile, passi da me questo
calice!»); c’è il tradimento e l’abbandono
degli amici, i discepoli, e quindi la
solitudine; c’è il muro gelido del potere
religioso e politico che lo isola come
un criminale; c’è la sofferenza fisica
della tortura e poi della macabra crocifissione con la morte per soffocamento;
c’è l’inatteso e terribile silenzio del
Padre («Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?»); c’è, inne, la morte
che Matteo e Marco rappresentano
in tutta la sua brutalità («Lanciato un
forte urlo, spirò»).
In questa vicenda di sangue e
di lutto si raggruma, certo, il dolore
dell’intera umanità, ma soprattutto
si rivelano i volti dei milioni e milioni
di martiri che fino a oggi vengono
“con-crocifissi” (e il verbo è di san
Paolo) con Cristo: dalle suore dello
Yemen ai cristiani trucidati nel Vicino
Oriente o in Nigeria o in Pakistan. Non
per nulla, quando san Luca deve descrivere
la fine del primo martire Stefano,
in filigrana ci fa intuire la morte
di Gesù: «Lapidavano Stefano, che pregava
e diceva: “Signore Gesù, accogli il
mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e
gridò a gran voce: “Signore, non imputare
loro questo peccato”. Detto questo,
morì» (Atti 7, 59-60).
Nel “Credo” citato da san Paolo c’è,
però, un’altra nota legata alla morte
di Gesù: «Morì per i nostri peccati».
Abbiamo in queste poche parole la
celebrazione proprio dell’amore misericordioso
di Dio che è al centro
di questa Pasqua giubilare. Nel Figlio
tutto l’oceano di male, di infamie, di
odio, di peccato che si è disteso e si
distenderà nei secoli viene dissolto.
L’Apostolo giungerà al punto di scrivere:
«Colui che non aveva conosciuto
peccato, Dio lo fece peccato in nostro
favore, perché in lui noi potessimo
diventare giustizia di Dio» (2Corinzi
5,21). Lo stesso Gesù aveva annunciato
questa sua missione di liberazione
e di salvezza attraverso questa frase
che alludeva solennemente alla sua
crocifissione e alla sua glorificazione:
«Quando sarò innalzato da terra, attirerò
tutti a me» (Giovanni 12,32).
Come dicevamo, c’è però un secondo
articolo di fede in quel testo paolino,
la risurrezione di Cristo. Egli non è
un personaggio dalla morte eroica: in
lui, anche quando è un cadavere deposto
in un sepolcro, permane la sua
qualità di Figlio di Dio, che in sé ha l’eternità
divina che va oltre la fine della
morte. È per questo che si apre l’alba del giorno di Pasqua. I Vangeli
non descrivono questo evento che
sboccia dalla storia e da una tomba
di Gerusalemme ma che supera
il tempo e lo spazio. Le infinite raffigurazioni della risurrezione – come
quella, dalla potente fisicità del Cristo
che si leva imponente dal sepolcro,
dipinta nel 1463 da Piero della Francesca
nella sala dell’antico palazzo
comunale del suo paese natale, Borgo
Sansepolcro – sono ignote ai racconti
pasquali degli evangelisti.
Essi, invece, come scrive Paolo, indicano
solo la nuova presenza viva e
operante del Risorto nelle “apparizioni”,
cioè negli incontri del Cristo
vivente con i suoi amici che spesso
faticano a riconoscerlo perché è
necessario a loro, come a noi oggi,
un nuovo sguardo, quello della fede,
per scoprire il suo volto. I martiri e i
viventi, i giusti e i peccatori, i cuori limpidi
e le menti dubbiose come quelle di
Tommaso e dei discepoli di Emmaus lo
incrociano da allora nelle strade della
loro vita e riascoltano ancor oggi quelle
parole che egli aveva indirizzato in
una notte forse ventosa di Gerusalemme
a Nicodemo: «Come Mosè innalzò
il serpente nel deserto, così bisogna che
sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché
chiunque crede in lui abbia la vita
eterna» (Giovanni 3,14-15).