Del 1993 conservo un ricordo emblematico risalente alla primavera di quell'anno. Stavo mangiando in pausa pranzo un panino al bar di fronte alla redazione di Famiglia Cristiana con la collega Rosanna Biffi e il caporedattore Pier Michele Girola, di ritorno da un servizio. A un certo punto si materializzò di fronte a me un gruppo di colleghi di vari quotidiani, che conoscevo dai tempi in cui seguivo la cronaca nera per un altro giornale. Oggi sono tutti firme note a parte qualche eccezione ma preferisco non fare nomi: non vorrei che si offendessero: oltre che molto bravi infatti sono anche molto suscettibili. Erano stati tutti “promossi” alla cronaca giudiziaria e coprivano da più di un anno l’inchiesta Mani Pulite. Ogni tanto ne incrociavo qualcuno nei corridoi di Palazzo di Giustizia, che a quei tempi funzionava a pieno ritmo come una “fabbrica” di avvisi di garanzia e di ordini di custodia cautelare. Dopo l’arresto di Mario Chiesa da parte del giovane magistrato Antonio Di Pietro gli imprenditori continuavano ad autoaccusarsi e a coinvolgere politici di rango sempre più elevato, in una girandola di corruzione e concussione senza fine. Il Tg4 Di Emilio Fede aveva montato una postazione fissa di fronte al Tribunale e un Paolo Brosio non ancora in crisi mistica ogni giorno elencava i nomi degli inquisiti in diretta come le formazioni a “Tutto il calcio minuto per minuto”. Ce n'erano alcuni talmente abituati a bivaccare in quei corridoi che gli avvocati si informavano prima da loro che dai magistrati per avere ragguagli sui loro assistiti.I colleghi mi salutarono cordialmente, ma erano in preda a una strana frenesia. Uno di loro mi chiese se conoscevo una traversa di via Monterosa, dove abitava un grosso imprenditore fresco di avviso di garanzia. Alcuni avevano il taccuino in mano, altri i telefonini di allora, grossi Motorola pesanti come mattoni. Non feci in tempo a indicare con un dito la strada che si erano già mossi a passo svelto in quella direzione, come una muta di lupi, frenetici e felici, ebbri di adrenalina da notizia. Sparirono all'orizzonte come in una scena di Helzapoppin’. A quel tempo vivevano quasi in simbiosi, condividendo le giornate e interminabili sere a parlare di inquisiti, di magistrati e di politici. Più tardi avrebbero litigato tutti tra di loro per un avviso di garanzia in più o in meno. Qualcuno negli anni a seguire avrebbe fatto anche un minimo di "auto da fe" per come dipendevano un po' troppo acriticamente dalle procure di mezza Italia.
Questo piccolo flash servirà a capire per chi non c’era qual era il clima del 1993, l’anno che ha dato il titolo alla fiction di Sky. Tangentopoli sembrava non finire mai. La politica della Prima Repubblica crollava sotto il maglio delle inchieste che si allargavano al resto del Paese. "Pareva che se un magistrato non tornava a casa senza aver inquisito un politico la moglie a cena se ne lamentava", mi disse in un'intervista Mino Martinazzoli, l'ultimo segretario della Dc. I tentativi della classe politica di arrestare quel processo di disgregazione che avveniva con il consenso popolare furono vani. “Era come fermare il vento con le mani”, mi spiegò Martinazzoli. La Lega Nord, giovane movimento fondato da un senatore di Cassano Magnago, tale Umberto Bossi, ci andava a nozze e cavalcò il vento dell'indignazione e della protesta. "Tutti a casa!", era lo slogan ricorrente. Il 16 marzo 1993 un deputato leghista di nome Leoni Orsenigo si guadagnò i suoi cinque minuti di celebrità sventolando un cappio dal suo scranno alla Camera, davanti allo sguardo divertito del presidente della Camera leghista Irene Pivetti.
A fermare quell'ondata antipolitica dovuta allo scoperchiamento del verminaio della corruzione ci provò il 30 apirle il segretario del Psi Bettino Craxi con un discorso in Parlamento, assumendosi la responsabilità del finanziamento illecito a nome di tutta la classe politica. Ma nemmeno lui riuscì a fermare il vento con le mani. Si beccò una protesta all’uscita dell’hotel romano dove alloggiava, il “Raphael”, a due passi da piazza Navona e dall’appartamento capitolino di via dell'Anima di Silvio Berlusconi, che lo aveva voluto come testimone di nozze per il suo matrimonio con Veronica Lario. “Bettino prendi anche questi”, gridava quella claque improvvisata, mentre lo coprivano di monetine.
Martinazzoli aggiunse anche che secondo lui la data storica per segnare quei rivolgimenti che preludevano a un colossale cambio di stagione non era l’arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio del 1992, ma il 13 luglio 1993. Quel giorno il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si rifiutà di firmare il decreto dell’allora ministro della Giustizia Conso sul finanziamento ai partiti, il cosiddetto “decreto salva-ladri”, dopo che il pool Mani Pulite al completo aveva minacciato le dimissioni presentandosi in televisione e andando in onda su tutti i telegiornali. Il decreto fu ritirato a furor di popolo.
Di Pietro e i suoi colleghi nel frattempo avevano messo le mani sulla “madre di tutte le tangenti”, come l’aveva definita parafrasando probabilmente Saddam alla vigilia della Guerra del Golfo, che aveva parlato di “madre di tutte le battaglie”. Stiamo parlando della maxi tangente Enimont. La joint venture tra Enichem, controllata dal gruppo Eni, e la Montedison del Gruppo Ferruzzi capitanata da Raula Gardini nasce il 9 maggio 1989. Si trattava della più grande operazione di fusione tra l’industria chimica pubblica e quella privata. Ma, come scrivono i giudici della V sezione penale di Milano, “la corsa di Gardini alla privatizzazione di Enimont era stata in varie forme ostacolata dalla parte pubblica e da forze politiche ed istituzionali, le quali non intendevano rinunciare al controllo sugli enti che gestivano la chimica italiana in considerazione dei rilevantissimi interessi – di natura economica, politica, sindacale - che ruotavano attorno ad essi”. Due anni dopo il “Contadino” decide di gettare la spugna. Nel 1990 Gardini infatti “maturava la decisione di venire a patti col sistema”. Ma prima, come emerge dall’inchiesta e poi dal processo, matura anche “l’esigenza di disporre di un’ingente provvista extrabilancio (circa 152 miliardi di lire)”. Lo scopo era quello di “corrispondere in forma occulta somme di rilevante entità al sistema politico, in previsione dello scioglimento della joint-venture Eni-Montedison”. E’ così che nasce la maxitangente, da distribuire a tesorieri di partito, amministratori, politici e prestanomi di quasi tutti i partiti dell’epoca.
Bisognava insomma distribuire un po’ di miele, come Gardini amava dire ai suoi collaboratori, per alzare il prezzo di vendita e farsi pagare cara Montedison a seguito di questo divorzio all’Italiana. Ma il miele doveva essere “pulito”, non riconducibile alle api che lo avevano prodotto. Nessuno però si immaginava che per il lavaggio i “Gardini boys” avrebbero fatto ricorso all’acqua santa. Gran parte della tangente venne riclata dallo IOR e parcheggiata in un conto intestato al prelato dell'istituto Donato de Bonis, di cui aveva la firma anche Giulio Andreotti (non si saprà mai se a sua insaputa o meno). La somma era destinata a filtrare attraverso banche estere all’indirizzo di vari politici. Tempo dopo si scoprirà che anche all’interno del Vaticano si era svolta una sorta di Mani Pulite segreta da parte dell’allora presidente dello IOR Angelo Caloia e del prelato Renato Dardozzi che porterà all'allontanamento di De Bonis.
Il 1993 è l’anno in cui si svolge una sorta di antipasto del maxi processo Enimont, quello che vede lo stralcio a carico del finanziarie Sergio Cusani. Durante il dibattimento sfila praticamente tutta la classe politica della prima Repubblica, da Forlani a Craxi, da de Michelis ad Altissimo, da La Malfa a Martelli. Mentre le indagini si fanno sempre più serrate il 20 luglio 1993 il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si suiciderà soffocandosi con un sacchetto di plastica in cella. Tre giorni dopo, nel suo appartamento in via Bigli, Raul Gardini punta alla tempia la sua Walter Ppk e preme il grilletto. E’ un’estate maledetta, coi suoi abissi e i suoi misteri. Ma la primavera non era stata molto diversa. Per sviare la pressione dalla Sicilia delle forze dell'ordine e della magistratura Cosa nostra attua un’operazione stragista nel resto d’Italia. Il Paese vivrà i giorni cupi dell’attentato allla VIlla Reale di Milano, poi quello ai danni di Maurizio Costanzo e della terribile strage di via dei Georgofili, dove morirà un’intera famiglia di cinque persone e un giovane studente di architettura, Dario Capolicchio. Qualche mese dopo mi toccò in sorte di intervistare Fancesca, la sua ragazza, che lo aveva visto morire: ricordo ancora il suo sguardo ancora vuoto, fisso su quella tragedia, la sua anima ferita per quell’oltraggio senza un perché che aveva rovinato un grande amore. L’ho persa di vista e spero che oggi abbia potuto ricominciare a vivere. Anche questo è stato il 1993: la prosecuzione dell’attacco stragista feroce della mafia iniziato con gli attentati di Capaci e Via D’Amelio. Nel settembre del 1993 venne ucciso anche un sacerdote, Giuseppe Puglisi, parroco della stessa borgata da cui erano partiti gli ordini delle stragi. "Quel prete dava fastidio", disse al processo il pentito Spatuzza, lo stesso che aveva collaborato alla strage di via De Georgofili. Non so se nello sceneggiato se ne parla. Forse non era abbastanza “cool” per gli sceneggiatori.
Ma il 1993 non fu solo il buco nero in cui avvenne il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. La legge sull’elezione dei sindaci si rivelò un meccanismo in grado di cambiare in positivo la classe dirigente nelle città e nelle metropoli, a cominciare da Torino, che vide l’avvento della giunta Castellani, il rettore del Politecnico galantuomo che attuò una rivoluzione silenziosa all’ombra della Mole. Mentre la Lega conquistava il Nord arrivando fino a Milano, a Roma l’endorsement di Silvio Berluconi a favore di Fini già prefigurava quello che sarebbe stato il 1994 con la “discesa in campo” dell’imprenditore. La Prima Repubblica era alle spalle, ci aspettava un immenso giro di giostra di vent’anni con la Seconda.