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mercoledì 16 ottobre 2024
 
 

Ct, dorata vita da cani

31/05/2010  Storia della panchina più ambita e scomoda del Belpaese.

Commissario senza commissione. Il mistero dello strano nome che accompagna da sempre l'allenatore-selezionatore della Nazionale (di calcio e no) ha radici dentro una lunga e curiosa storia che risale agli albori dell'Italia del calcio quando ancora non era azzurra (lo sarebbe diventata solo alla sua terza partita, giocò in bianco le prime due).

    Siamo nel 1910, è maggio, si tratta di convocare per la prima volta l'ultrasquadra che rappresenta a livello internazionale le leghe calcio del Nord e del Sud. I Mondiali non esistono ancora, saranno realtà solo nel 1930, ma l'Olimpiade invece esiste: nel 1912 sarà Stoccolma. 

    E qui comincia il divertimento: il grattacapo di convocare a zero lire, come andava allora, la Nazionale parve gravoso nelle mani di un solo uomo: si optò per una commissione (di arbitri, alcuni ancora giocatori in attività). E provate a immaginare come sarebbe un Del Piero che fa l'arbitro in campionato e entra in una commissione con Rossetti che ancora gioca e decide se sia il caso di convocare Cassano oppure no. E così di seguito per altre quattro o cinque persone nella stessa barca. 

    Oggi sarebbe perlomeno zuffa, e anche allora lo era. Difficilissimo mettere d'accordo tutti. Si finiva per fare una Nazionale col bilancino da farmacia e conseguenti esiti infausti sul campo. E infatti ai Giochi sarebbe andato in panchina il solo Vittorio Pozzo, primo Ct unico di lunghissimo corso. Ma le commissioni non sparirono, durarono con vicende alterne fino al 1960, fino ad allora infatti al Ct si affiancarono spesso altre figure, secondo i casi, di allenatore, direttore, tecnico, segretario e comitati vari.

    Il primo Ct passato alla storia, unico a stagioni alterne, è comunque VITTORIO POZZO, artefice dei successi della Nazionale ai Mondiali del 1934 e 1938. Di mestiere faceva il giornalista sportivo alla stampa, con il compito di redigere cronache come firma di punta: un inviato in panchina, come neanche nei migliori sogni di Sky. Ma anche qui ci sarebbe da ridere, a immaginare come sarebbe oggi con Lippi e i giornalisti che si criticano e si scontrano un minuto sì e l'altro anche. Di diversissimo c'era il fatto che per vincere due Mondiali Vittorio Pozzo non ebbe altro che rimborsi spese a fronte di pezze giustificative. Solo alla fine della carriera, una volta dimesso, ebbe in dono dalla Federazione un appartamento a Torino, a titolo di ringraziamento. 

    Per arrivare all'unicità definitiva bisogna attendere GIPO VIANI, nel 1960, che era già in sella dal 1958: stava contemporaneamente con Nereo Rocco sulla panchina del Milan e insieme portarono in rossonero e in azzurro il virus del bel gioco. Viani avrebbe dovuto guidare l'Italia al Mondiale del 1962, ma lasciò dopo l'Olimpiade romana, troppo ben giocata per una misera medaglia di legno.

    Venne FERRARI, poi toccò a EDMONDO FABBRI, uomo di campo, formatosi al Mantova e all'Inter, sostenitore del gioco offensivo, ma passato alla storia per una disfatta, quella contro la famigerata Corea del Nord del celeberrimo Pak Doo Ik, dilettante come i suoi compagni, autore della rete che rispedì a casa l'Italia, bersaglio di non metaforici pomodori e ortaggi assortiti. Si gridò anche al complotto, ma sarebbe stato più verosimile nel 2002, contro un'altra Corea, del Sud, in panchina GIOVANNI TRAPATTONI: un Mondiale sciagurato, sciaguratamente arbitrato dall'ecuadoriano Byron Moreno, che per quella Corea-Italia finì agli annali. 

    FERRUCCIO VALCAREGGI aveva un'Italia di stelle: Facchetti, Riva, Rivera e la portò in alto nel 1970, ma non gli perdonarono la vittoria mancata e l'inserimento del Golden boy in finale solo agli ultimi sei minuti. Peggio che mai la disfatta del 1974, sfociata nel magnifico romanzo di Arpino, Azzurro tenebra, riedito in questi giorni da Bur. In quella disfatta, passata anche alla storia per una protesta non proprio oxfordiana di Giorgio Chinaglia che mandò a spasso Valcareggi, c'era anche Dino Zoff, che oggi la spiega così: «Fu una fase difficile, c'era un ricambio generazionale in corso».

    La sequenza cronologica chiede ENZO BEARZOT, subentrato alla breve parentesi di FULVIO BERNARDINI. Friulano ruvido e colto, Bearzot aveva imparato ad allenare alla scuola del paron Nereo Rocco e faceva già parte della delegazione azzurra ai Mondiali di Germania 1974. Complice forse la ruvidezza, ebbe attorno presto la sfiducia, culminata nel silenzio stampa del Mondiale 1982, quando nacque per la prima volta la condizione che rese l'Italia squadra vincente purché in stato d'assedio.

    La stagione di Bearzot finì, in Messico, nel 1986, con la squadra eliminata prestissimo. Sarebbe subentrato AZEGLIO VICINI,  come Bearzot tecnico di tradizione federale e non di club, una situazione frequente tra i Ct dell'Italia (lo erano stati Pozzo e Valcareggi, lo sarebbe stato dopo Cesare Maldini): gli toccò il compito esaltante e difficile di portare l'Italia al Mondiale in casa nel 1990. Come molte volte sarebbe accaduto in successive notti magiche e sventurate, i rigori dissero male (in semifinale). 

    Dissero male altrettanto in finale quattro anni dopo ad ARRIGO SACCHI, tecnico superappassionato di schemi, considerato l'artefice del Milan perfetto. Si diceva che quel suo modo di fare squadra, come su uno scacchiere di risiko, fosse inadatto a una Nazionale che non aveva il tempo di acquisire schemi e moduli. Forse era vero, ma Sacchi, con un percorso accidentato arrivò in finale e inchiodò sullo 0-0 il Brasile di Bebeto e Romario. Finì ai rigori e, in maglia azzurra, come quasi sempre, dal dischetto sbagliarono i migliori. 

    Restano: CESARE MALDINI, DINO ZOFF, MARCELLO LIPPI 1, ROBERTO DONADONI. Sono storia recente. 

    Maldini rimasto per un po' prigioniero di un'imitazione comica (Vai vai vai Paolinoooo), ha avuto il merito di lanciare in azzurro un giovanissimo Buffon e forse il demerito di non osare abbastanza, ma non c'è mai la controprova.

    Zoff ha perso due minuti oltre la fine un Europeo per una palla persa. Demeriti non ne ha avuti e non ha cercato scuse. Si è dimesso senza ripensamenti all'indomani, a seguito di una critica altolocata che lo definì "indegno", lasciando una lezione di dignità.
    
    Marcello Lippi 1 è il simbolo della seconda Italia assediata e vincente. Non doveva essere una generazione di fenomeni, ma ha avuto ragione il tecnico: ha usato l'ambiente ostile dello scandalo di calciopoli in corso, per creare nel gruppo un sentimento di rivalsa, culminato in finale Mondiale in 5 rigori su 5, come mai nella storia. 

    Roberto Donadoni, chiamato da una Federazione commissariata durata lo spazio di un mattino, ha avuto l'ingrato compito di ereditare i campioni del mondo, in odore di smobilitazione. Clima difficile, autorevolezza minata alla radice, e forfait pesanti. All'Europeo del 2008, dove arrivava con gufate assortite e Lippi in odore di rientro, non ha brillato, ma - è onesto ammetterlo - ha messo in campo l'unica squadra capace di portare ai rigori la Spagna destinata poi al titolo europeo. 

    Marcello Lippi 2 è un presente che scade come uno yogurt bene che vada l'11 luglio 2010, ammesso che l'Italia torni a giocarsi quel giorno la finale mondiale. Per intanto si sforza di ricreare l'assedio portafortuna e conseguente sogno, poi si vedrà.

    Da quella data di scadenza, il giorno che l'Italia metterà i piedi sul suolo italiano dopo il Sudafrica, toccherà a CESARE PRANDELLI. La sua storia parla di doti tecniche e umane. Non resta che augurargli di conservarle a dispetto di quella remunerativa ma scomodissima panchina, su cui tutti vorrebbero stare, pur sapendola cosparsa di puntine.  

 
 
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