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domenica 28 maggio 2023
 
ragazze tra due culture
 

"Cultura e religione si mescolano, fondamentale il ruolo delle madri"

12/04/2017  Il Procuratore per minorenni di Milano racconta la sua esperienza con le ragazze di seconda generazione divise tra due identità.

Hanno l’età in cui si sperimenta l’autonomia, in cui si conquista a poco a poco la libertà che serve a diventare grandi. Ma spesso la vivono lacerate. Sono le ragazze immigrate di seconda generazione: da una parte c’è il mondo in cui sono cresciute, l’Italia in cui vanno a scuola, la realtà in cui desiderano disperatamente integrarsi, dall’altra c’è la loro famiglia con origini lontane, che portano la cultura di un Paese altro che spesso nemmeno conoscono e che a un certo punto, però, interviene a limitare la loro libertà di ragazze che crescono, talvolta con le maniere forti. 

Abbiamo chiesto a Ciro Cascone, che da capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale per minorenni di Milano ha affrontato molti di questi casi, di aiutarci a capire un problema che ci riguarda, almeno nei luoghi in cui i nostri figli frequentano i loro coetanei.

Dottor Cascone, è  un fenomeno in aumento?

«Quando capita un caso eclatante l’attenzione si concentra, ma sono situazioni che io vedo da anni. Il conflitto degli adolescenti stranieri di seconda generazione si acuisce, perché vivono in famiglia e contemporaneamente nella società, a scuola avvertono un pesante dissidio, hanno una scissione culturale che diventa scissione identitaria:vorrebbero vivere come i loro coetanei  italiani e invece si ritrovano con le imposizioni/impostazioni culturali della famiglia».

Un problema culturale o religioso? Riguarda solo le ragazze?

«Anche qualche ragazzo, ma ovviamente soprattutto le  ragazze e soprattutto quelle di cultura araba in senso lato, dove nell’impostazione tradizionale della famiglia cultura e religione si confondono un po’, per altro da uomo del Sud direi non tanto diversamente da quanto accadeva cinquant’anni fa nel meridione d’Italia. Il problema diventa tanto più evidente quando la famiglia cerca di restare ancorata alle proprie tradizioni, pur vivendo in Italia, e impone  un modello di comportamento e di abbigliamento che i figli sentono lontano, esponendoli a una grande lacerazione perché il desiderio dei ragazzi non è rompere con la famiglia ma negoziare un po’ più di elasticità».

Qual è il punto di caduta in cui interviene la Procura per minorenni?

«I casi in cui sedicenni, diciassettenni, cominciano a vivere una situazione che chiamiamo di pregiudizio: quando l’educazione rigida sfocia in maltrattamento non necessariamente fisico. Non dobbiamo dimenticare che il maltrattamento psicologico talvolta fa anche più male. Ci sono i casi eclatanti dei matrimoni imposti ma il più delle volte affrontiamo il dissidio che nasce dal fatto che il genitore pensa di utilizzare legittimamente i propri criteri educativi, oltrepassando la linea del dovuto, cosa che per ragioni diverse accade anche, con le famiglie italiane».

Sono sempre allontanamenti definitivi?

«L’allontanamento  è il provvedimento di urgenza, ma quando si può si cerca mediare, per favorire la ricostruzione delle relazioni familiari. Quando è possibile, ovviamente, preservando la sicurezza dei figli. Perché non sempre lo è. Ci anche famiglie che disconoscono i figli, creando drammi enormi per questi ragazzi che si trovano in un  limbo: rifiutati dalla loro comunità spesso non si sentono neppure completamente parte della nostra e si trovano costretti a una scelta radicale mentre vorrebbero costruire un ponte tra le culture e rischiano di essere lasciati soli in mezzo al guado. Quando capita vanno aiutati a costruirsi un percorso di autonomia, tutelati dal rischio da un lato di commettere qualche sciocchezza, dall’altro dal pericolo di essere rispediti in Paesi d’origine di cui non sanno nulla».

Par di capire che in questa mediazione sia nella famiglia la parte più difficile…

«Sì, spesso le famiglie non sono attrezzate a capire, vivono l’intervento dello Stato come una violenza. Ma non dobbiamo pensare a uno scontro di civiltà, perché non tutti si comportano così:  ci sono anche tante ragazze che vanno al liceo e vestono all’occidentale mentre la mamma porta il velo e vivono in un clima di tolleranza, per fortuna. Ma credo che dobbiamo porci questo problema culturale, perché non possiamo limitarci a dire “è la loro cultura e  va rispettata”, quando invece ci vanno di mezzo i diritti delle persone: se c’è un maltrattemento c’è un reato, l’intervento è obbligato. Ma a prescindere dal reato serve un grande lavoro di mediazione culturale, per aiutare questi ragazzi che vivono una situazione di vulnerabilità estrema».

Si riesce a farlo?

«Quando c’è un servizio sociale che funziona si riesce meglio ad operare, aiutando ragazzi e famiglie, perché anche le famiglie vanno aiutate a capire: la conquista di civiltà dei diritti dei bambini e delle donne è costata secoli di sofferenza non possiamo buttarla via e liquidarla con la scusa del rispetto di un’altra cultura».

Quanto è importante, nel bene e nel male, il ruolo delle madri?

«Fondamentale, se non c’è una madre che abbia l’apertura per opporsi, anche con qualche rischio personale, alla rigidità del marito sono i figli a farne le spese, perché troppo spesso le madri, se non sono integrate e non sanno una parola di italiano, divengono lo strumento d’attuazione della rigidità dei padri. Più le madri si integrano, più hanno la forza di reagire, di pensare con la loro testa, maggiore è la garanzia per la serenità dei figli».

Come reagiscono le famiglie al vostro intervento?

«Vivono un doppio dramma, il primo è l’avere un figlio ribelle, il secondo è rendersi conto che lo Stato tutela il figlio. C’è una grande difficoltà di comunicazione, c’è un grande bisogno di mediatori culturali, di persone che lavorino per far capire che vivere in Italia comporta l’adesione ad alcuni principi fondamentali: primo fra tutti il rispetto dei diritti della persona e del minore. Devono coesistere le culture diverse ma c’è uno zoccolo duro di valori che va difeso per difendere le persone, le donne in particolare. Spesso quando interveniamo le famiglie ci dicono: “l’abbiamo punita perché va male a scuola”, senza capire che spesso la difficoltà scolastica è la conseguenza di un disagio non la sua causa». 

 

 

 
 
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