Oltre cento milioni di euro d’investimento. Due anni di lavori. Uno staff di una quindicina di persone tra medici, fisici, tecnici e borsisti. Due posti di day hospital e la possibilità, una volta entrato a regime, di curare un migliaio di pazienti oncologici ogni anno, lavorando 16 ore al giorno per 5 giorni a settimana e 8 ore il sabato.
A Trento è ufficialmente iniziato il conto alla rovescia per l’apertura del centro di protonterapia. I test preliminari necessari a calibrare gli strumenti e a verificare il corretto funzionamento dei macchinari sono già iniziati da qualche settimana e i responsabili del centro contano di poter accogliere i primi pazienti entro l’estate. Un’eccellenza per il nostro Paese (è il primo in assoluto). Ma anche in Europa i centri analoghi sono pochi: appena quattro. A Parigi, Monaco, Essen e Praga. Nessuno di questi però è di proprietà pubblica.
Estremamente vasto l’elenco dei tumori che sarà possibile trattare nella nuova struttura. «La protonterapia ha le stesse caratteristiche di base della radioterapia tradizionale» spiega Maurizio Amichetti, oncologo e direttore Unità operativa di Protonterapia dell’Azienda sanitaria di Trento. «Quindi può essere indicata per qualsiasi tumore radiosensibile. Finora con questo sistema sono stati curati soprattutto tumori della sfera neuro-oncologica, oculari, neoplasie della prostata. Tutti tumori complessi da trattare per la vicinanza di organi vitali».
Rispetto ai metodi usati finora, la protonterapia ha dalla sua una precisione inimmaginabile. Prosegue Amichetti: «Il nuovo sistema riesce ad evitare di irradiare tessuti sani vicini al tumore. Vengono quindi ridotti gli effetti collaterali acuti e cronici del trattamento, facendo in tal modo diminuire il rischio di secondi tumori, visto che le radiazioni sono un fattore cancerogeno molto rischioso». Una peculiarità che la rende particolarmente idonea nell’oncologia pediatrica: «I tumori infantili hanno un beneficio nel trattamento perché la irradiazione molto ridotta dei tessuti sani circostanti permette di ridurre il rischio di effetti collaterali nel lungo periodo. E i bambini hanno una lunga prospettiva di vita».
Un motivo di vanto per il Trentino, che conferma di essere all’avanguardia nella ricerca medica, fin da quando, ricorda l’assessore provinciale alla Sanità, Donata Borgonovo Re, «nel 1952 aprimmo a Borgo Valsugana la prima ‘bomba al cobalto’ d’Europa, un approccio assolutamente innovativo per l’epoca». Ma i vantaggi non saranno circoscritti nelle valli attorno a Trento. Troppo pochi sono i casi di tumore registrati nella provincia per riempire le liste d’attesa del centro. La locale azienda sanitaria prevede quindi che circa l’80% dei pazienti arriverà dalle altre regioni italiane. Affinché questo accada serve però che le varie regioni stipulino convenzioni con il servizio sanitario trentino.
Nella partita entra anche il ministero della Salute, al quale compete la decisione se inserire o meno la nuova terapia all’interno dei Lea, i livelli essenziali di assistenza che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a offrire a tutti i cittadini. Un passaggio cruciale per garantire la sostenibilità economica del centro, che confida anche negli effetti della direttiva europea che introduce la cosiddetta “Schengen sanitaria”: in pratica tutti i pazienti della Ue hanno il diritto di curarsi in ospedali pubblici di Stati diversi dal proprio. Una caratteristica detenuta finora solo dalla struttura di Trento.