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lunedì 07 ottobre 2024
 
 
Benessere

Cure palliative, un antidoto contro la sofferenza

18/01/2015  Per garantire una migliore qualità della vita, un team composto da medici, anestesisti, psicologi e fisioterapisti prende in carico il malato in modo globale, in strutture residenziali e soprattutto a domicilio.

Dolore, ma non solo: anche bisogno di sentirsi meglio, di relazionarsi con la vita. Nelle persone con malattie inguaribili, la sofferenza fisica non è il sintomo più frequente in assoluto, ed è comunque associata a debolezza, difficoltà respiratorie, mancanza d’appetito, ansia, disagio psichico e spirituale.
Ogni anno in Italia 250 mila malati terminali devono fare i conti con il cambiamento delle abitudini quotidiane e la difficoltà di relazionarsi con familiari e amici. E medici e infermieri, ma anche psicologi e fisioterapisti, sanno bene che non devono curare soltanto il dolore.

«Si calcola che i malati in fase terminale (per tumore o altre patologie) in Italia siano l’1 per cento: la stessa percentuale della Gran Bretagna, dove il National health service ha indicato ai medici di famiglia di identificare i malati e supportarli con la campagna “Find your 1%”», spiega Pierangelo Lora Aprile, responsabile Area dolore e cure palliative Simg.

Negli anni Ottanta i cosiddetti “palliativisti” erano medici ospedalieri per lo più anestesisti “dedicati” al dolore”, ma oggi il team delle cure palliative è formato da varie competenze e opera in prevalenza fuori dall’ospedale, offrendo assistenza domiciliare a casa dei malati o in strutture residenziali idonee, gli Hospice, molto differenti dagli altri luoghi di ricovero perché aperti molto più a lungo e attrezzati per far dormire i familiari accanto ai propri cari.

Inoltre la formazione si è evoluta. In diciotto Paesi dell’Unione europea esistono persino specializzazioni di Medicina in cure palliative. In Italia la specialità non c’è ancora, ma abbiamo professionisti adeguatamente formati. «Quando sono nati i primi nuclei di medici e sanitari specializzati», dice Monica Beccaro, responsabile dell’Accademia delle scienze di Medicina palliativa (Asmepa) di Bologna, «hanno basato il loro intervento prevalentemente sulla pratica clinica e sulla formazione “sul campo”. Solo in un secondo tempo sono stati strutturati specifici programmi di formazione».

La percezione è soggettiva

  

«Tra i pazienti che beneficiano delle cure palliative il dolore non è il sintomo più frequente e non ha la stessa importanza per tutti», afferma Daniela Celin, direttore sanitario della Fondazione Hospice Seragnoli di Bologna. «Per alcuni è insostenibile il pensiero che si ripresenti finito l’effetto del farmaco, per altri è preferibile cercare di sopportarlo per conservare il massimo livello di relazione. I diversi punti di vista influenzano le scelte dei familiari; anch’essi possono avere atteggiamenti diversi rispetto al dolore espresso dal loro congiunto, e questo rappresenta un ulteriore elemento di complessità da tenere presente per fare scelte terapeutiche appropriate».

Altro mito da sfatare: i dosaggi del farmaco, antidolore o antivomito, non sono il centro della cura. «Nelle cure palliative, diversamente da altri contesti», afferma Celin, «l’obiettivo è controllare i sintomi, tenendo conto che la sofferenza del malato inguaribile è composta da più dimensioni: fisica, psicologica, esistenziale e sociale. Ogni piano di cura e di controllo dei sintomi è specifico per ciascun individuo e ha l’obiettivo di procurare la sua migliore qualità di vita».

Rivoluzione nei trattamenti

È la filosofia al centro della Combination therapy che sta rivoluzionando in primis, ma non solo, i trattamenti anti-dolore. In definitiva, il rischio da evitare è che il paziente sia trattato o troppo o troppo poco.
«Per personalizzare al meglio le cure», dice Beccaro, «ci si attiene a criteri generali: somministrare farmaci che procurino sollievo in un tempo e per una durata accettabile, senza provocare effetti collaterali negativi; prestare attenzione alle possibili diverse risposte individuali (un malato potrebbe avere effetti collaterali a dosaggi di farmaco che magari altri pazienti non presentano); considerare sempre le possibili interazioni tra farmaci; adeguare orari e vie di somministrazione per quanto possibile a una routine accettabile».

In pochi anni, dunque, si è assistito a una rivoluzione della formazione degli operatori. In parallelo in Italia c’è stata una crescita progressiva delle strutture di ricovero dedicate ai malati terminali. «Gli Hospice», continua Beccaro, «sono passati dai 182 del 2009, ai 204 del 2010 e ai 217 del 2011. La Società di cure palliative (Sicp) ha indicato lo 0,60 quale valore ottimale di posti letto per 10.000 residenti.
Ma questo indicatore è molto disomogeneo e registra in alcune Regioni del Sud livelli inferiori al valore ottimale. Nell’area metropolitana di Bologna, con 58 posti letto accreditati con il Servizio sanitario nazionale (dunque gratuiti per i pazienti), negli Hospice Bentivoglio, Bellaria e Casalecchio la Fondazione Seragnoli offre 0,67 posti letto ogni 10.000 abitanti, coprendo il fabbisogno locale, a fronte di una media regionale di 0,61 e nazionale di 0,35 (fonte: ministero della Salute, 2010)».

Proprio la Fondazione Seragnoli, che tra 2007 e 2013 ha erogato corsi di formazione a oltre 2.000 studenti, si è posta il problema di far interagire già dal momento della formazione le figure professionali operanti negli Hospice. E sull’onda della Legge 38/2010, che disegna con contenuti affini per tutta Italia cinque master sanitari di primo e secondo livello in cure palliative e terapia del dolore, ha avviato – prima in Italia – i master su percorso annuale in collaborazione con l’Accademia delle scienze di medicina palliativa (Asmepa) e l’Università di Bologna.

L’esperienza ha portato nel 2012 a istituire all’Hospice di Bentivoglio il primo Campus residenziale in Europa per ospitare chi studia la medicina palliativa e offrirgli una formazione pratica. «Lo scambio e la condivisione di conoscenze e competenze tra diversi professionisti », spiega Beccaro, «sono fondamentali per rendere più efficace il lavoro di équipe multiprofessionali cardine dell’assistenza in cure palliative». Forse, un passo decisivo verso il corso di specialità medica previsto in altri Paesi europei, e forse un passo oltre.

 
 
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