Dolore, ma non solo: anche
bisogno di sentirsi meglio, di
relazionarsi con la vita. Nelle
persone con malattie inguaribili,
la sofferenza fisica
non è il sintomo più frequente in assoluto,
ed è comunque associata a debolezza,
difficoltà respiratorie, mancanza
d’appetito, ansia, disagio psichico e spirituale.
Ogni anno in Italia 250 mila malati
terminali devono fare i conti con il
cambiamento delle abitudini quotidiane
e la difficoltà di relazionarsi con familiari
e amici. E medici e infermieri,
ma anche psicologi e fisioterapisti, sanno
bene che non devono curare soltanto
il dolore.
«Si calcola che i malati in fase terminale
(per tumore o altre patologie) in Italia
siano l’1 per cento: la stessa percentuale
della Gran Bretagna, dove il National health
service ha indicato ai medici di famiglia
di identificare i malati e supportarli
con la campagna “Find your 1%”», spiega
Pierangelo Lora Aprile, responsabile Area
dolore e cure palliative Simg.
Negli anni Ottanta i cosiddetti “palliativisti”
erano medici ospedalieri per
lo più anestesisti “dedicati” al dolore”,
ma oggi il team delle cure
palliative è formato da varie
competenze e opera in prevalenza
fuori dall’ospedale,
offrendo assistenza domiciliare
a casa dei malati o in
strutture residenziali idonee,
gli Hospice, molto differenti dagli
altri luoghi di ricovero perché aperti
molto più a lungo e attrezzati per far
dormire i familiari accanto ai propri cari.
Inoltre la formazione si è evoluta. In
diciotto Paesi dell’Unione europea esistono
persino specializzazioni di Medicina
in cure palliative. In Italia la specialità
non c’è ancora, ma abbiamo
professionisti adeguatamente formati.
«Quando sono nati i primi nuclei di
medici e sanitari specializzati», dice
Monica Beccaro, responsabile dell’Accademia
delle scienze di Medicina palliativa
(Asmepa) di Bologna, «hanno basato
il loro intervento prevalentemente
sulla pratica clinica e sulla formazione
“sul campo”. Solo in un secondo tempo
sono stati strutturati specifici programmi
di formazione».
La percezione è soggettiva
«Tra i pazienti che beneficiano
delle cure palliative il
dolore non è il sintomo più
frequente e non ha la stessa
importanza per tutti», afferma
Daniela Celin, direttore
sanitario della Fondazione Hospice
Seragnoli di Bologna. «Per alcuni
è insostenibile il pensiero che si ripresenti
finito l’effetto del farmaco, per altri
è preferibile cercare di sopportarlo
per conservare il massimo livello di relazione. I diversi punti di vista influenzano
le scelte dei familiari; anch’essi
possono avere atteggiamenti diversi rispetto al dolore espresso dal loro
congiunto, e questo rappresenta un ulteriore
elemento di complessità da tenere
presente per fare scelte terapeutiche
appropriate».
Altro mito da sfatare: i dosaggi del farmaco,
antidolore o antivomito, non sono
il centro della cura. «Nelle cure palliative,
diversamente da altri contesti», afferma
Celin, «l’obiettivo è controllare i sintomi,
tenendo conto che la sofferenza del
malato inguaribile è composta da più dimensioni:
fisica, psicologica, esistenziale
e sociale. Ogni piano di cura e di controllo
dei sintomi è specifico per ciascun
individuo e ha l’obiettivo di procurare la
sua migliore qualità di vita».
Rivoluzione nei trattamenti
È la filosofia al centro della Combination
therapy che sta rivoluzionando in
primis, ma non solo, i trattamenti anti-dolore. In definitiva, il rischio da evitare
è che il paziente sia trattato o troppo
o troppo poco.
«Per personalizzare
al meglio le cure», dice Beccaro, «ci si
attiene a criteri generali: somministrare
farmaci che procurino sollievo in
un tempo e per una durata accettabile,
senza provocare effetti collaterali
negativi; prestare attenzione alle possibili
diverse risposte individuali (un
malato potrebbe avere effetti collaterali
a dosaggi di farmaco che magari altri
pazienti non presentano); considerare
sempre le possibili interazioni tra
farmaci; adeguare orari e vie di somministrazione
per quanto possibile a una
routine accettabile».
In pochi anni, dunque, si è assistito a
una rivoluzione della formazione degli
operatori. In parallelo in Italia c’è stata
una crescita progressiva delle strutture
di ricovero dedicate ai malati terminali.
«Gli Hospice», continua Beccaro, «sono
passati dai 182 del 2009, ai 204 del
2010 e ai 217 del 2011. La Società di cure
palliative (Sicp) ha indicato lo 0,60
quale valore ottimale di posti letto per
10.000 residenti.
Ma questo indicatore
è molto disomogeneo e registra in alcune
Regioni del Sud livelli inferiori al valore
ottimale. Nell’area metropolitana
di Bologna, con 58 posti letto accreditati con il Servizio sanitario nazionale
(dunque gratuiti per i pazienti), negli
Hospice Bentivoglio, Bellaria e Casalecchio
la Fondazione Seragnoli offre 0,67
posti letto ogni 10.000 abitanti, coprendo
il fabbisogno locale, a fronte di
una media regionale di 0,61 e nazionale
di 0,35 (fonte: ministero della Salute,
2010)».
Proprio la Fondazione Seragnoli,
che tra 2007 e 2013 ha erogato corsi
di formazione a oltre 2.000 studenti, si
è posta il problema di far interagire già
dal momento della formazione le figure
professionali operanti negli Hospice. E
sull’onda della Legge 38/2010, che disegna
con contenuti affini per tutta Italia
cinque master sanitari di primo e secondo
livello in cure palliative e terapia
del dolore, ha avviato – prima in Italia
– i master su percorso annuale in collaborazione
con l’Accademia delle scienze
di medicina palliativa (Asmepa) e
l’Università di Bologna.
L’esperienza ha portato nel 2012 a
istituire all’Hospice di Bentivoglio il primo
Campus residenziale in Europa per
ospitare chi studia la medicina palliativa
e offrirgli una formazione pratica.
«Lo scambio e la condivisione di conoscenze
e competenze tra diversi professionisti
», spiega Beccaro, «sono fondamentali
per rendere più efficace il
lavoro di équipe multiprofessionali cardine
dell’assistenza in cure palliative».
Forse, un passo decisivo verso il corso
di specialità medica previsto in altri
Paesi europei, e forse un passo oltre.