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domenica 13 ottobre 2024
 
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«In questo ospedale continuano ad arrivare tanti bimbi. Non piangono mai»

26/08/2021  La testimonianza dall'Afghanistan di Leila Borsa, infermiera di Emergency nel centro medico di Lashkar-gah. «Le ferite dei pazienti sono sempre le stesse: proiettili, schegge di bombe o di mine. Molti colleghi afghani hanno perso la casa o hanno dovuto mettere in salvo le famiglie: sono terrorizzati»

Leila Borsa.
Leila Borsa.

Lo scorso febbraio, da Legnano, in provincia di Milano, dove lavorava in pronto soccorso come infermiera, Leila Borsa si è trasferita all’ospedale di Emergency di Lashkar Gah, città nel sud dell’Afghanistan, a circa 600 chilometri da Kabul, caduta nelle mani dei talebani già nei primi giorni di agosto. La raggiungiamo al telefono mentre lì sono le 15.30. «Finora è stata una giornata abbastanza tranquilla. Non ci sono stati tanti accessi e in compenso siamo riusciti a dimettere un po’ di pazienti».

Per quali motivi sono state ricoverate le persone oggi?

«Sempre ferite di guerra: da proiettile, da scheggia o da mina. Ci sono anche persone con ferite di qualche giorno, che arrivano da zone del Paese anche molto lontane da qui».

Quindi ci sono ancora scontri per le strade?

«Sì, assolutamente. Ci sono sempre stati da quando sono arrivata. Si sono solo intensi•cati nelle ultime settimane».

La popolazione come ha accolto i talebani?

«Posso parlare solo per il personale afghano che lavora con me in ospedale. Tanti hanno perso la casa, hanno perso parenti, hanno dovuto evacuare le loro famiglie. Per giorni non sono riusciti a uscire dall’ospedale o venire a lavorare perché le strade erano chiuse ed erano terrorizzati. Ora la situazione sta un po’ migliorando. Non sentiamo più il rumore delle bombe. Quello che stiamo vedendo a Kabul, noi lo abbiamo già vissuto. C’è la paura per il futuro, perché nessuno sa cosa succederà».

Per quello che lei sa, come si stanno comportando con la popolazione?


«Posso dire come si stanno comportando con noi. Finora non abbiamo avuto problemi a venire al lavoro e questo riguarda tanto il personale maschile, quanto quello femminile. Certo, per strada si vedono meno donne in giro, qualcuna con il velo e qualcuna con il burqa».

Avete curato anche qualche talebano?


«Quando un ferito arriva, noi di Emergency non chiediamo mai nulla. Lo curiamo e basta».


Da un punto di vista emotivo, qual è stato l’intervento che l’ha coinvolta di più?

«Accogliamo tante donne e tanti bambini, anche molto piccoli. Quando una bomba piomba su una casa chi vive dentro può essere colpito da schegge, vetri, detriti, che spesso
procurano ferite molto gravi. E la cosa che mi ha impressionato di più è che ho visto pochissimi bambini piangere. Anche quando provano sofferenze atroci, anche quando sanno che è stato loro appena amputato un arto, trovano sempre la forza per sorriderti. È il modo che usano per ringraziarti perché ti stai prendendo cura di loro. E tra loro si aiutano sempre. Vedo in giardino quelli più grandi spingere sulla carrozzina i più piccoli».

Quante persone non afghane ci sono nell’ospedale?


«Siamo in tre: io, un medico serbo e un altro ragazzo italiano che si occupa della logistica. Il resto del personale, sono circa trecento persone, è tutto afghano».

Ha già vissuto esperienze simili?

«No. È la mia prima esperienza all’estero. Il Medio Oriente mi ha sempre affascinato e quando mi hanno proposto di venire qui ho accettato al volo».

Quando pensa di tornare in Italia?

«Il mio rientro era previsto un mese fa. Ho deciso di prolungare almeno •fino alla fi•ne di agosto. Poi vedremo come si evolverà la situazione».

Non ha paura in quanto donna?

«No. I miei movimenti al di fuori dell’ospedale sono molto limitati. In strada porto il velo per rispetto alle tradizioni di questo Paese, in ospedale no, anche se ovviamente uso un abbigliamento consono: non giro in maniche corte o con vestiti attillati».

I suoi familiari in Italia cosa le dicono?

«Dopo l’arrivo dei talebani sono più preoccupati. Però ci videochiamiamo tutti i giorni e così vedono che sono tranquilla».

Quando ha sentito l’ultima volta Gino Strada?

«Purtroppo non l’ho mai conosciuto di persona. L’ho solo sentito in una telefonata di lavoro pochi giorni prima della sua scomparsa. Era preoccupato per noi e voleva sapere come
stavamo».
 

 

 

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