La copertina di Famiglia Cristiana n.44, in edicola e in parrocchia dal 30 ottobre, dedicata allo scrittore Alessandro D'Avenia.
Nel suo nuovo, attesissimo romanzo, da oggi in libreria, Alessandro D’Avenia pone in epigrafe una frase del suo amato Dostoevskij: “L’inferno è la sofferenza di non poter amare”. Ed è quello che succede a Brancaccio, la borgata di Palermo a più alta densità mafiosa in cui è ambientato Ciò che inferno non è (Mondadori), dedicato a Pino Puglisi, il parroco ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 ed elevato agli onori degli altari dalla Chiesa in odium fidei. La trama si svolge intorno a un adolescente palermitano - ritratto autobiografico dell’autore - che si imbatte nella storia di padre Puglisi, ne vive le vicende e lo accompagna fino all’esecuzione finale decretata dai boss del quartiere, davanti alla porta della sua casa, la sera del suo 56esimo compleanno.
Un romanzo struggente e profondo, che attraversa l’animo di un adolescente, come solo D’Avenia sa fare, animato da passione civile e tormentata sensibilità religiosa al tempo stesso. Il protagonista, Federico, fa parte di quella generazione degli anni ’90 che visse come una sorta di perdita dell’innocenza gli attentati a Falcone e Borsellino. “Prima”, spiega mentre passeggiamo sul lungomare di Mondello affollato dai bagnanti come fossimo a luglio, nell’aria dolcissima della Conca d’oro profumata di zagara “noi non sapevamo cos’era la mafia. O meglio, ce ne tenevamo fuori, era una cosa che non ci riguardava. Con gli attentati di Capaci e via D’Amelio è cambiato tutto. E Puglisi è stato il protagonista di questo nuovo, rinnovato impegno”. D’Avenia non ha scritto un santino, e nemmeno un romanzo antimafia. “La retorica dell’antimafia", spiega, "non mi interessa. Quello che mi interessa è capire e far capire come il parroco della borgata più dimenticata della città ha cambiato le cose”.
Lo scrittore, rivivendo la cronaca di quei giorni terribili, ne legge i segni evangelici, a cominciare da come don Puglisi si comportava nel liceo classico Vittorio Emanuele. “Ma chi, padre Puglisi? Me lo ricordo a scuola: durante l’intervallo passeggiava nei corridoi e rispondeva alle domande dei ragazzi. Non gli piaceva la sala professori: diceva che era piena di professori”. Quel suo modo di deambulare lungo i corridoi era un modo per evangelizzare anche durante l’intervallo. Puglisi invitava gli studenti della Palermo bene ad andare a Brancaccio, quartiere di cui spesso non conoscevano nemmeno l’esistenza. Dovevano giocare a pallone, fare catechismo, aiutare il “parrino” nel Centro Padre Nostro, da lui fondato e finanziato con i soldi dello stipendio di insegnante di religione. “Don Pino sa che l’inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bambini. Bisogna difendere la loro anima prima che qualcuno gliela sfratti. Custodire ciò che hanno di più sacro”. D’Avenia nel costruire il romanzo interiore e civile di questo giovane Holden siciliano segue Puglisi attraverso quei fatti, negli anni bui di Palermo, li scruta a fondo e riconosce i segni evangelici di un calvario, fino allo spasimo finale, quel 15 settembre 1993.
“Il libro”, conclude lo scrittore, “è stata anche l’occasione per riconciliarmi con la mia città, Palermo, di cui non avevo capito nulla". Una città, potremmo dire, anch'essa bianca come il latte e rossa come il sangue, dove convivono inferno e paradiso, rappresentata da un dipinto di Raffaello sottratto come se le avessero sottratto l'anima e da una chiesa sconsacrata a cielo aperto, la chiesa dello Spasimo: “A Palermo il posto custodito dal cane fedele ai ricordi è per me lo Spasimo, una chiesa abbandonata a cielo aperto, nei pressi della Cala. Costruita su quel confine tra mare e terra dove bambini e padri innalzano torri di sabbia, a difesa dei loro sogni. Lì restano le pareti dello Spasimo, come se un’ondata l’avesse quasi strappata alla città. Tra queste mura metà di luce e metà di ombra, sotto un cielo ritagliato in cornici di pietra gialla come oro, volte e archi si aprono su un purissimo azzurro. Quando non so più accendere un fuoco o non ricordo le parole delle preghiere, ho bisogno del posto giusto per evocarli”.
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