Ghayath Mattar, uno dei sei nuovi Giusti del Giardino di Milano.
Un governatore ottomano salvatore degli armeni, gli agenti della Guardia costiera di Lampedusa, due pacifisti siriani oppositori di Assad, un magistrato assassinato dalla mafia, una donna italoeritrea che soccorre i profughi del Corno d’Africa.
Sono state annunciate le sei nuove personalità che il 6 marzo, in occasione della Giornata europea dei Giusti, saranno onorate con un cippo al Monte Stella, la collina artificiale costruita a Milano con le macerie della Seconda guerra mondiale.
Qui dal 2003 sorge il Giardino dei Giusti, sul modello di Gerusalemme, dove nel Viale dei Giusti tra le Nazioni del museo Yad Vashem si ricordano i non ebrei che hanno soccorso le vittime della Shoah. In base a una legge israeliana del 1953, il riferimento è a quanto affermato nella Bibbia: «Chi salva una vita, salva il mondo intero».
Da allora, il concetto si è esteso alle persone che, anche in contesti storici differenti, hanno lottato contro le persecuzioni e aperto la strada del dialogo e della riconciliazione, motivate da un’etica di responsabilità.
Gariwo, l’onlus che in questi anni ha promosso la memoria dei Giusti a Milano e nel mondo, nel commentare le sei figure non tralascia i riferimenti ai fatti di Parigi. Basilio Rizzo, presidente del Consiglio Comunale, ha sottolineato come alcuni di loro siano di religione islamica, mentre Gabriele Nissim, ebreo e presidente di Gariwo, commenta: «In questo momento di attacco ai simboli dei valori europei, ci sono due giovani attivisti siriani che non hanno esitato a mettere a rischio la propria vita per difendere quegli stessi valori contro ogni forma di dittatura e di fondamentalismo».
Mehmet Gelal Bey.
Il Giusto che si oppose al genocidio degli armeni
In effetti, i sei nuovi Giusti partono
dal genocidio armeno, di cui nel 2015 si compiono i cent’anni, per arrivare
alle tragedie dei giorni nostri, dalla guerra in Siria a Lampedusa. C’è una
città che ricorre in più di una biografia: la siriana Aleppo, tutt’ora
assediata dal luglio 2012 con combattimenti casa per casa, continui bombardamenti
e abitanti sotto il ricatto dell’acqua che gruppi jihadisti tolgono alla
popolazione.
Era la città governata da Mehmet Gelal Bey: quando, tra il
1914 e il 1915, molti suoi connazionali turchi iniziarono la deportazione delle carovane di donne,
vecchi e bambini armeni nel deserto di Der-es-Zor, lui si oppose agli ordini di
Istanbul e scelse di stare dalla parte delle vittime, anche a costo della
propria vita. Organizzò campi di raccolta per i profughi armeni che arrivavano
a migliaia in città, predispose una rete di soccorso ai malati e di distribuzione
del cibo. Aiutò molti a fuggire o a ricongiungersi con i familiari.
Quando fu
rimosso dall’incarico e trasferito a Konya, anche qui si oppose agli ordini di
deportazione e, insieme a missionari americani, aiutò molti profughi. «Il sangue scorreva lungo il fiume», scrisse
nelle sue memorie, «con migliaia di bambini innocenti, vecchi inavvicinabili,
donne senza speranza, giovani forti, che galleggiavano sull’acqua, verso il
nulla. Ho salvato chi potevo con le mie mani nude, il resto scorreva lungo il
fiume senza ritorno».
Successivamente fu rimosso nuovamente e finì la sua vita in povertà.
Rocco Chinnici.
Dalla Siria a Lampedusa, passando per Palermo
Anche la vicenda di Ghayath Mattar e Razan Zaitouneh si svolge in Siria, ma negli ultimi anni. Ghayath, cresciuto a Daraya, sobborgo di Damasco, ha 26 anni quando nel marzo 2011 scende in piazza con tanti siriani a manifestare contro Assad, chiedendo «Dignità, libertà e pari diritti».
Entra nel movimento pacifista, allora molto forte, e comincia a distribuire acqua e fiori ai soldati fedeli al regime che hanno il compito di reprimere le manifestazioni. Crede, ne è convinto, che quei soldati venuti a reprimere i manifestanti possano, attraverso il suo gesto, riscoprirsi fratelli e ascoltare la loro coscienza. Diversi pacifisti siriani cominciano a imitare il giovane e anche in altre città la gente regala fiori e acqua ai soldati. È qualcosa di surreale per i servizi di sicurezza siriani, bisogna dare l’esempio: il 6 settembre del 2011 Ghayath viene arrestato e quattro giorni dopo il suo corpo è riconsegnato alla famiglia.
Anche Razan Zaitouneh era impegnata contro Assad: avvocatessa di 37 anni, documentava le violazioni dei diritti umani dando un nome e un volto ai morti in Siria. È stata rapita nel dicembre 2013 da bande estremiste, con sospetto coinvolgimento del regime.
Gli altri “nuovi” Giusti sono tre italiani. Gli agenti della Guardia costiera di Lampedusa hanno partecipato a tanti interventi di salvataggio dei migranti dal 2011 ad oggi. «Potrebbe essere considerato un dovere professionale», spiegano dal Giardino dei Giusti, «ma in realtà le donne e gli uomini che si spendono per salvare i disperati in rotta verso le nostre coste, lo fanno con un senso di umanità e uno spirito di sacrificio che va ben oltre la semplice osservanza di un dovere».
Rocco Chinnici, il cui nome è stato proposto tra gli altri da don Ciotti, è l’alto magistrato di Palermo assassinato dalla mafia nel 1983 dopo che aveva costruito il nucleo del primo pool antimafia per seguire le tracce del denaro sporco e garantire l’impermeabilità dei magistrati alle pressioni dell’ambiente circostante, gravemente inquinato dalla mentalità e dalle ingerenze mafiose. Aveva inoltre intuito l’importanza del coinvolgimento dei giovani, andando di persona a parlare nelle scuole a costo di togliere tempo e dedizione agli impegni familiari, a lui carissimi.
Infine, Alganesh Fessaha, milanese di origine eritrea che ha già ricevuto l’Ambrogino d’Oro nel 2013, in varie occasioni ha rischiato la vita per salvare e liberare dalle prigioni e dai rapimenti di bande criminali profughi eritrei, etiopi e sudanesi, dal deserto del Sinai alla Libia, dal Medio Oriente a Lampedusa.