Un Boris Johnson in difficolta’, sovrappeso, un po’ goffo, probabilmente ancora affetto dalle conseguenze del Covid . A Bruxelles si trova a disagio e chiede, incerto, alla presidentessa dell’Unione Europea Ursula von der Leyen (che tra le altre cose è anche medico): «Adesso ce la possiamo togliere la mascherina?». E lei risponde, allontanandolo: «Si, ma mantieni la distanza». E poi lo avverte: “La mascherina va rimessa subito”.
Qualche ora dopo lo stesso primo ministro schiera quattro navi della Marina militare britannica per difendere le acque di sua Maesta’ dai pescatori europei. Quasi quelle guardacoste fossero i velieri di Francis Drake e l’Inghilterra una potenza isolata che si difende dagli aggressori francesi e spagnoli.
Chissà, forse la storia segnerà alla pagina di questo incontro a Bruxelles tra i due leader, ventun giorni prima la data del 31 dicembre, quando la Gran Bretagna uscirá dall’Unione Europea, la svolta che ha portato a un “no deal”, alla mancanza di un trattato commerciale. Certo questa possibilità Johnson l’ha prospettata piu’ volte, pur accettando di continuare a trattare con la Ue.
Durante quella cena a Bruxelles la von der Leyen ha offerto a Johnson capesante e rombi. Pesci che, insieme a molluschi, calamari e aragoste, sono quasi la totalità del pescato britannico che viene venduto, peró, soltanto in Europa. La maggior parte degli inglesi, infatti, storce il naso alla vista dei frutti di mare. Importano, invece, buona parte del loro merluzzo del piatto nazionale “fish and chips” dalla Danimarca che sta nell’Unione europea.
E il messaggio dei ventisette a Johnson, servito portata dopo portata, è stato chiaro: «Vuoi difendere le tue acque dai nostri pescatori, ma quello che pescano i tuoi lo vendete soltanto dentro il nostro mercato».
Un rapporto di “give and take”, come si dice in inglese, di dipendenza reciproca che segna le relazioni tra Gran Bretagna e Ue.
Come con la pesca, anche per le regole comuni e il sistema di arbitraggio di queste ultime, gli euroscettici ripetono il mantra: «Vogliamo comandare a casa nostra, controllando da soli i nostri confini e le nostre leggi, senza farci dire dall’Europa che cosa fare, ma vogliamo accesso al mercato europeo, il più importante del mondo».
Posizione che darebbe loro un vantaggio sproporzionato e non giustificato. Un po’ come è successo con il vaccino Pfeizer-BionTech, un farmaco prodotto con fondi europei, da scienziati tedeschi di origine turca, e finanziato da una multinazionale americana che di inglese non ha proprio nulla. La Gran Bretagna, che fa ancora parte dell’Agenzia Europea del Farmaco, ha saputo approfittare di una procedura di emergenza per arrivare prima. E sfruttare, poi, questo vantaggio, fatto anche di disponibilitá a rischiare, a fini nazionalisti con il ministro della Sanitá Matt Hancock che ha detto che e’ stato tutto merito della Brexit.
La prima giornata di vaccinazioni, quando il Regno Unito e’ riuscito a battere gli altri Paesi occidentali, arrivando un mese in anticipo, e’ stato soprannominato “V day”, la giornata della resa della Germania durante la seconda guerra mondiale. Sempre festeggiata e ricordata in Gran Bretagna. E tra i primi a vaccinarsi c’e’ stato un omonimo di William Shakespeare.
Nazionalismo avanti tutta. Con una retorica vecchia, datata al 1800, quando i confini degli Stati non venivano sfidati dalla globalizzazione che un’Europa fatta di ventisette Paesi diversi affronterà, inevitabilmente, meglio di un Regno Unito isolato. Che, da mercoledì, si prepara a far partire il lockdown totale.
«È significativo che, alla vigilia della cena di Bruxelles, e anche nei giorni successivi, Boris Johnson abbia cercato di raggiungere Angela Merkel», spiega il professor Stefan Enchelmaier, esperto di legislazione europea all’universitá di Oxford, «Gli euroscettici sono chiusi in una vecchia concezione di sovranità, quando si telefonava a Bismarck, l’uomo potente di turno e gli accordi si concludevano quasi di nascosto. Johnson non vuole o non puo’ capire chi comanda oggi a Bruxelles. Europa e Regno Unito parlano due linguaggi politici diversi. Per lui la presidentessa della commissione europea e’ soltanto una “apparatchik”, una burocrate, una funzionaria senza potere».
Una visione che non ha fondamento nella realtà ma riflette i sentimenti di una fetta di fanatici che controllano il partito Tory al potere. Pronti a sacrificare l’economia in nome del passato. Il Regno Unito perdera’ 70 miliardi di sterline, quasi 77 miliardi di euro, in dieci anni, con un accordo. Senza un “deal” il danno sara’ molto maggiore e l’economia potrebbe contrarsi anche dell’8% in un periodo di dieci anni.
Ad essere puniti saranno l’agricoltura e l’industria delle automobili ma anche le universita’, il turismo, la City ma a un Boris Johson in grave crisi di popolarita’ tutto questo non importa.
La sua gestione della pandemia e’ stata disastrosa. Se a Bruxelles c’era Ursula von der Layen, a ricordargli di mettersi la mascherina e fare la distanza, in patria, in questi mesi, non c’è stato nessuno. Il premier, campione del “laissez faire” in materia di Covid, ha portato il Regno Unito in cima alla classifica dei Paesi europei per morti di Covid.
Dentro al partito, all’inizio della crisi, Johnson era sostenuto dall’80% degli iscritti. Oggi dal 20%.
Non sappiamo ancora se il premier vuole davvero uscire dalla Ue senza accordo oppure se è disposto a fare marcia indietro rispetto al suo sogno assoluto di sovranitá ma non possiamo escludere che sia disposto a sacrificare l’economia britannica per ingraziarsi i Tories euroscettici che, oggi, comandano nel partito e vogliono mandarlo via.
Il suo gioco sovranista, populista, autoritario e, soprattutto, egoista, fatto di puro istinto di sopravvivenza potrebbe, però, non funzionare se un “no deal”, un disastro secondo molti, vi fosse davvero.
Boris Johnson potrebbe allora passare alla storia come il premier che ha portato la Gran Bretagna fuori dalla Ue senza un accordo e i danni economici che ha causato al suo Paese potrebbero essere calcolati con precisione dai suoi elettori e dai libri di storia.