In queste immagini dell'agenzia Reuters, il Nagorno-Karabakh così come si presentava nell'aprile scorso.
E’ una delle regioni più inquiete e instabili della terra. I conflitti si infiammano e poi vengono congelati, perché a tutti conviene così. Accade da duecento anni nel Caucaso, fin dal tempo del Grande Gioco, il confronto militare e politico che per quasi un secolo tra Ottocento e Novecento ha opposto Impero russo e Impero britannico con il corollario di alleati fedeli e infedeli.
Il Caucaso è una regione di interessi competitivi dove sempre hanno operato gli attori più importanti della geopolitica euroasiatica. E’ il centro delle vie dei traffici, che una volta viaggiavano in carovana, snodo di strade per eserciti marcianti e ora è il
fulcro della complessa rete del trasporto di energia, gas e petrolio.
La posizione strategica del Caucaso è la sua forza e anche la sua rovina. La regione continua ad essere il cuore del nuovo Grande Gioco di interessi contrapposti e di divergenze tra le potenze: Russia, Stati Uniti, Iran, Turchia, Unione Europea. Sono cambiati solo i nomi dei giocatori, che si confrontano in mezzo ad un turbinio di etnie contrapposte, pronte al rimescolamento della fedeltà, assolutamente instabili nelle alleanze, con spinte indipendentistiche mai chiare, che fanno della regione la madre di tutte le incognite geopolitiche. Ogni tanto qualcosa brucia e per una manciata di giorni, a volte di settimane, si riprendono guerre a bassa intensità che provocano tuttavia morti e movimenti di profughi, di cui in fretta si perde la memoria. Poi il conflitto viene di nuovo congelato e si aspetta la prossima puntata.
E’ l’ultima teoria, quella dei “frozen conflict”, conflitti congelati perché conviene a tutti e tutti sono sempre pronti a tirali fiori dal frigorifero per il tempo che serve nel gioco delle minacce incrociate per alzare qualche posta. Il Caucaso delle
pipeline è il luogo perfetto dell’esercizio. La Russia è il guardiano principale del congelatore, marginalizzata dalla fine dell’Unione Sovietica nella regione e desiderosa di riprendersi il controllo di un territorio dove in realtà un controllo vero non lo ha mai avuto, fin dai tempi dello scontro tra lo zar e i circassi. Oggi, come ha dimostrato anche il dramma ceceno, si aggiunge all’inquietudine la questione dell’integralismo islamico, l’ultimo giocatore che si è seduto al tavolo.
Sono almeno cinque i conflitti congelati. Solo
in Georgia ce ne sono due Ossezia del Sud e Abkazia.
Poi c’è quello del Nagorno-Karabakh, dove si confrontano azeri e armeni e dunque per interposta persona turchi e russi, i primi amici degli azeri e i secondi degli armeni. Un paio di mesi fa anche qui c’è stato un breve ritorno di fiamma. Tra Yerevan e Baku insomma non c’è nulla di pacifico e tutti, intorno, hanno paura di tutti, dopo la guerra che ha opposto Armenia e Azerbaijan tra il 1988 e il 1994 con 40 mila morti. Ora si teme che l’area sulla riva occidentale del Caspio possa diventare luogo di confronto “scongelato” tra Russia, Turchia e Iran, con Teheran preoccupatissima che la costituzione di un forte e stabile Stato azero a Baku possa risvegliare l’orgoglio dei 25 milioni di azeri che vivono in Iran e che sognano da troppo tempo il “Grande Azerbaijan”. E questa è un’altra delle ragioni per cui i conflitti è meglio congelarli. Al Gioco partecipano anche gli Usa e l’Europa e cioè gli interessi delle grandi multinazionali del gas e del petrolio occidentali che qui si confrontano con quelle russe in un intreccio complesso di equilibri non sempre virtuosi.
A tutto ciò va aggiunto il conflitto, anch’esso congelato dopo gli Accordi di Minsk, in Ucraina e quello mai risolto della Transnistria. E non vanno dimenticate le tensioni mai sopite in Inguscezia, in Daghestan e in Cecenia. La comunità internazionale non ha molte idee. Così si procede in un contrappunto di stallo e di turbolenze. E chi ne fa le spese sono soprattutto i diritti umani in nome della pretesa di sicurezza.