Quando penso a suor Elvira, amica ormai di tanti anni, mi vengono in mente tre tenerissime immagini. Elvira, giovane ed esuberante caramellaia che corre, festosa e ridente, con la sua motocicletta nelle campagne piemontesi dove era venuta ad abitare con la famiglia dalla natia Frosinone. Elvira che scala le montagne, va a ballare e a sciare con gli amici, che si è legata a uno di loro in particolare, con cui progetta di sposarsi. Ma, mentre sono seduti sul sofà di cucina e parlano con gioia del futuro, dei figli che desiderano, avverte una fitta al cuore. E dice al suo ragazzo: «È tutto bello, ma non so che cosa mi sta succedendo, qualcosa non va. Dammi un po’ di tempo per riflettere».
La terza immagine mi turba: Elvira mentre va a cercare nei gironi infernali della droga i giovani che urlano disperati. Non ha paura, sorride e molti di loro, attratti dal suo sguardo amoroso, la seguono verso la luce.In queste sequenze è racchiusa la vita della mia amica Elvira. C’è tutto il suo abbandono nel Dio dell’amore che abbraccia senza fare distinzioni, la sua passione per l’umanità che soffre, la sua coraggiosa allegria che rompe ogni schema, quando c’è da salvare o da aiutare chi incontra.
Ho scoperto suor Elvira sulla collina di Saluzzo negli anni Ottanta, dove aveva aperto la Comunità Cenacolo. La villa abbandonata, che aveva liberato dai rovi picconando e ripulendo, avrebbe dovuto accogliere i poveri senza casa. Invece arrivarono due giovani tossicodipendenti e lei non ebbe dubbi. Glieli mandava quel Dio che un giorno l’aveva chiamata con dolcezza, ma con forza amorosa a consacrarsi a lui nella congregazione delle suore di Santa Giovanna Antida Thouret. E poi l’aveva condotta per mano a occuparsi sempre di più degli ultimi, anche quando per quindici anni aveva sbucciato patate, lavato pentole e risciacquato stoviglie nelle cucine interrate di un grande ospedale torinese, dove vedeva solo le scarpe dei passanti dalle finestrelle del marciapiede, immaginandone storie e volti.
Dopo una settimana i due ragazzi erano diventati dieci. Nello spazio di pochi anni, centinaia, migliaia. Vite perdute e bruciate, anni di carcere e di violenze, ribellioni contro la famiglia. Pericolosi,pronti a tutto pur di soddisfare quell’esigenza devastante di una sostanza che illude di farti star bene, mentre ti annienta. Vuoti a perdere, merce scaduta, pietre scartate per la società. Figli prediletti per madre Elvira che li accoglie, li ascolta, parla loro con la chiarezza di un affetto che s’impone: «Se volete qui ci sono amici che sono stati nei vostri inferni,pronti a darvi una mano perché da soli non ce la fate. C’è quel Dio che tanto vi ha amati da farsi crocifiggere per condividere la fatica e le sofferenze di ogni uomo».
E ai tanti che oppongono: «Io sono ateo, non credo, non capisco», risponde: «Non ti preoccupare, non si capisce la preghiera con la testa, ma si sperimenta con il cuore. Se lo apri a Gesù con fiducia, tutto cambia». È il Vangelo secondo una donna che ha imparato a leggere le cose di Dio non sui libri, ma nelle ferite e nella disperazione dei viandanti abbandonati ai margini delle strade.
Oggi il Cenacolo è diventato una multinazionale dell’amore e della speranza,del soccorso reciproco, con 61 fraternità sparse in 18 Paesi del mondo. Ogni anno, a luglio, sulla collina di Saluzzo, arrivano dalle Americhe, dall’Africa, da tutta l’Europa, per celebrare “La festa della vita”. La loro risalita dalle tenebre alla luce insieme con le famiglie che hanno ritrovato il sorriso. Una folla sempre in aumento che si stringe attorno a Elvira e che lei abbraccia, mentre ripete, stupita di tanti “miracoli”: «Non capisco che cosa stia accadendo, ma sento di dover amare,amare, amare. Tutto qui».