Mario Marazziti, 70 anni, ad Aleppo. Tutte le fotografie di questo servizio sono dell'autore del reportage. Per gentile concessione.
La città di Damasco è una grande signora adagiata nella valle, ma tanti vivono sulla montagna, su cui rimbalzano i riflessi del sole. Una città viva. I grandi alberghi magari hanno il night e qualche negozio chiuso, l’esposizione dei dolci e la varietà del cibo è ridotta rispetto al passato, ma in realtà, nella capitale convivono con le difficoltà di tanti anche il quartiere delle ambasciate, dietro al Dama Rose hotel, che una volta era parte della catena Meridien, a un chilometro dal Four Seasons, che ha cambiato proprietà ma resta a cinque stelle. E i caffè e i ristoranti nuovi, le macchine nuove in doppia fila, BMW, Mercedes e suv, le luci fino a tarda notte, stanno a dieci minuti dalla città delle macchine riparate cento volte, di chi chiede soldi, con le strade buie, senza combustibile. Anche le famiglie mediamente ricche, però, usano la stufa in case che hanno i termosifoni, ma spenti. Sono i giorni dei missili israeliani - davvero fulmine a ciel sereno – e spazzano via un palazzo, uccidono alcuni civili, accanto alla Cittadella di Damasco.
Incontriamo il nunzio, il cardinale Mario Zenari che già stava lavorando alla creazione di un coordinamento nazionale e alla creazione di un canale diretto per poter ricevere donazioni e aiuti, in collaborazione con la Mezzaluna Rossa, direttamente e attraverso le Chiese, le Ong e le congregazioni religiose che non si sono mai allontanate dalla Siria. Poi, la mattina dopo, in un mini-convoglio dietro all’auto della nunziatura, dove c’è anche il Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, monsignor Gugerotti, arrivato per aiutare i soccorsi, facciamo il viaggio verso Aleppo.
Chi si ricorda dell’interminabile assedio di Aleppo, oggi? Per troppi anni l’hashtag #SaveAleppo si è opposto alla dimenticanza e all’abitudine all’orrore nel decennio passato, ma intanto sono state sfregiate intere aree di una delle città più antiche del mondo. Distruggendo anche la possibilità di viverci e di vivere per tanti: famiglie divise, azzerate, prese in ostaggio. Tanti i familiari che non ci stanno più, feriti, caduti sotto le bombe sporche. Un simbolo dell’intera Siria. Un Paese con 6 eserciti e più a combattere: i gruppi jihadisti di al-Nousra e Daesh, i gruppi armati “secolari, l’esercito siriano, e poi russi, iraniani e hezbollah, i curdi e l’esercito turco. E gli americani. In una guerra che ha anticipato gli schieramenti di quella in Ucraina di adesso, parte di una guerra fredda con Stati Uniti e Russia in primo piano: “La Siria è lo stadio. L’erba è la gente. Tutti ci corrono sopra”, dice un saggio. Il viaggio da Damasco ad Aleppo è indimenticabile. Ma anche difficile da raccontare, a parte la deviazione dalla superstrada M5, tutta percorribile, per rifornirsi di carburante presso un chiosco che vende acqua, birra siriana ma anche una improbabile birra ucraina, patatine e taniche di benzina. Il confronto con gli Autogrill è impietoso. E si capisce dalla montagna di carta moneta che sono le taniche di benzina il vero affare.
Perché anche raccontando non si riesce a comunicare che cosa si prova a vedere 345 chilometri, a destra e sinistra, di case e palazzi sventrati, villaggi e piccole città-fantasma, praticamente senza interruzione. Comincia a Duma, a nord di Damasco, teatro di grandi scontri tra governativi e jihadisti, e finisce alla periferia di Aleppo. Questi palazzi e case con le orbite vuote, infrastrutture sghembe di cemento tra le cui rovine si è combattuto per anni, come se fosse Stalingrado sono una vista che non smette per 4 ore. Non c’è più niente di vivo, tranne qualche carro armato al riparo dentro a un palazzo sventrato, che ricorda dove siamo. Trincee di terra rossa costeggiano la strada in corrispondenza di centri abitati che non lo sono più da anni. A volte i palazzi morti sono lontani dalla strada, si vedono a un chilometro di distanza. Ma è perché per centinaia di metri, tutti, tutti gli edifici che c’erano sono stati sbriciolati e formano un tappeto di macerie uniformi. Deve esserci stata l’aviazione, a un certo punto della guerra, a fare la differenza in quelle zone. In corrispondenza di Hama e Idlib, dopo Homs, se possibile, questo scenario aumenta ancora di più. In linea d’aria Idlib e la zona controllata dai jihadisti è pochi chilometri, separata solo da una zona demilitarizzata, adesso.
Chi si ricorda dell’interminabile assedio di Aleppo, oggi? Per troppi anni l’hashtag #SaveAleppo si è opposto alla dimenticanza e all’abitudine all’orrore nel decennio passato, ma intanto sono state sfregiate intere aree di una delle città più antiche del mondo. Distruggendo anche la possibilità di viverci e di vivere per tanti: famiglie divise, azzerate, prese in ostaggio. Tanti i familiari che non ci stanno più, feriti, caduti sotto le bombe sporche. Un simbolo dell’intera Siria. Un Paese con 6 eserciti e più a combattere: i gruppi jihadisti di al-Nousra e Daesh, i gruppi armati “secolari, l’esercito siriano, e poi russi, iraniani e hezbollah, i curdi e l’esercito turco. E gli americani. In una guerra che ha anticipato gli schieramenti di quella in Ucraina di adesso, parte di una guerra fredda con Stati Uniti e Russia in primo piano: “La Siria è lo stadio. L’erba è la gente. Tutti ci corrono sopra”, dice un saggio. Il viaggio da Damasco ad Aleppo è indimenticabile. Ma anche difficile da raccontare, a parte la deviazione dalla superstrada M5, tutta percorribile, per rifornirsi di carburante presso un chiosco che vende acqua, birra siriana ma anche una improbabile birra ucraina, patatine e taniche di benzina. Il confronto con gli Autogrill è impietoso. E si capisce dalla montagna di carta moneta che sono le taniche di benzina il vero affare.
Perché anche raccontando non si riesce a comunicare che cosa si prova a vedere 345 chilometri, a destra e sinistra, di case e palazzi sventrati, villaggi e piccole città-fantasma, praticamente senza interruzione. Comincia a Duma, a nord di Damasco, teatro di grandi scontri tra governativi e jihadisti, e finisce alla periferia di Aleppo. Questi palazzi e case con le orbite vuote, infrastrutture sghembe di cemento tra le cui rovine si è combattuto per anni, come se fosse Stalingrado sono una vista che non smette per 4 ore. Non c’è più niente di vivo, tranne qualche carro armato al riparo dentro a un palazzo sventrato, che ricorda dove siamo. Trincee di terra rossa costeggiano la strada in corrispondenza di centri abitati che non lo sono più da anni. A volte i palazzi morti sono lontani dalla strada, si vedono a un chilometro di distanza. Ma è perché per centinaia di metri, tutti, tutti gli edifici che c’erano sono stati sbriciolati e formano un tappeto di macerie uniformi. Deve esserci stata l’aviazione, a un certo punto della guerra, a fare la differenza in quelle zone. In corrispondenza di Hama e Idlib, dopo Homs, se possibile, questo scenario aumenta ancora di più. In linea d’aria Idlib e la zona controllata dai jihadisti è pochi chilometri, separata solo da una zona demilitarizzata, adesso.
Non c’è nemmeno un cavalcavia che è rimasto in piedi sopra la M5. Gli occhi mi chiedevano qualcosa di vivo, di diverso, ma c’erano solo scheletri della vita che c’era prima e che non c’è più. I vivi sono sfollati all’interno e un’altra parte sono i profughi in Turchia, in Medio Oriente, in Europa. Vorrei regalare i miei occhi e la loro memoria a tutti quelli che decidono di pace e di guerra, che parlano e decidono o non decidono di profughi e politiche di accoglienza. Da quando sono tornato, mi capita a volte di cercare di capire se tra le case in lontananza quello che si vede sono finestre aperte o orbite vuote di un palazzo abbandonato. È come un riflesso condizionato, anche se sono a Roma. Ma Aleppo, e la vita lì, vogliono continuare. Lo preannunciano due macchie di colore: due benzinai nuovi, uno rosso e uno azzurro, che non sono ancora aperti, ma sono così diversi dal grigio, dal nero e dal bianco sporco del cemento sbriciolato, bombardato, mangiato, arrugginito di tutto il resto, che fanno allegria.
Il terremoto è l’ultima guerra che si è aggiunta alla fatica di vivere dei siriani. Settemila morti lì a Nord, 50 i palazzi crollati nella sola città di Aleppo. La prima notte passata lì, alle 4 e un quarto, c’è una nuova scossa. Ci siamo dentro, senza conseguenze. Ma non si sa quanti sono i palazzi e le case lesionati. Il terremoto porta però una paura nuova, è un sapore cattivo mentre si stava assaggiando quasi un sapore di normalità. Ma lì ci si abitua presto all’instabilità, come quando la luce va via, mentre si aspetta che un generatore riparta. Come alla città di notte, che si spegne, e resta solo qualche luce flebile, quella dei led e delle luci d’emergenza, come se quei due milioni di esseri umani la sera nelle case non ci fossero. Ma ci sono.
Aleppo è un pellegrinaggio dell’anima, della solidarietà, del dolore e della rinascita. Chi c’è stato nel 2017, quando è stata riunificata al resto della Siria e al suo interno dalle forze governative, parla di palazzi di 5 piani adagiati su sé stessi, un metro e mezzo di calcinacci silenziosi. Una parte di quei palazzi è stata ricostruita. C’è penuria, meno cibo che a Damasco. Ma la vita scorre, in qualche punto anche confusa, un frammento di Napoli e di Istanbul insieme. La Cittadella di Aleppo, uno degli insediamenti più antichi del mondo, è alla sommità di una morbida collina tonda, verde. Sulle antiche mura sono i segni delle bombe, la torre è mangiata su un lato. Il camminamento alto, lungo la grande muraglia circolare, è stato terreno di scontro. Il terremoto adesso deve avere lesionato qualcosa dentro, e no si piò entrare all’interno. Di fronte, l’hammam, l’antico bagno turco gigante, non c’è più. Resta un pezzo della cupola, mura bruciate, accartocciate, voragini. Altre cupole, con le bocche del calidarium e per la luce, sono resti di bunker. Al posto di una moschea c’è un cratere immenso. Di fronte, tra quelle distruzioni e la Cittadella, c'è, restaurata, una grande spianata pavimentata in pietra. È il luogo dello “struscio”, mamme con chador e bambini in carrozzina, perché i turisti ancora non ci sono. Sotto a un bel sole invernale, decine di ragazzini che giocano a pallone. Altri, adolescenti, appena sanno che veniamo dall’Italia si entusiasmano: non solo russi o kazakhi. È come se fossimo il ramoscello d’ulivo della colomba di Noè. Vuol dire che da qualche parte il diluvio è finito. Una ragazza con un amico, chador chiaro e un bel viso sorridente, chiede di fare un selfie assieme. Poi facciamo una foto scattata dall’amico col suo telefonino. Due grandi caffè- ristorante davanti all’ingresso della Cittadella, hanno tanti tavoli all’aperto su una delle viste più belle del mondo. C’è anche una coppia di architetti aleppini che prendono dolci e caffè. La conversazione è colta, sulla ricostruzione, intanto sorridono e fumano shisha su un dondolo romantico.
Non lontano, in basso, la moschea degli Omayyadi e il suq. Una madrasa antichissima, che all’interno ha un cortile e un altro edificio che era una chiesa bizantina, cupole e cappelle e absidi attorno al corpo centrale, una San Marco in piccolo, è un relitto bombardato. Grandi fori in alto, i segni di una bomba che ha sfondato la cupola della madras-chiesa bizantina interna, segni dei proiettili e delle granate sulle facciate interne. C’è un uomo che la tiene aperta e prega lì due volte al giorno. Cordiale. Ci fa vedere sul telefonino come era prima. Ma siamo sul fianco della moschea degli Omayyadi. Il minareto pezzato. Ma la fondazione Aga Khan lo sta ricostruendo con i materiali di recupero. La grande spianata d’ingresso è ancora com’era, come, d’altra parte i palazzi anneriti e forati della via che conduce da lì alla Cittadella. Montagne di pietre crollate per tutto il perimetro.