Uscito martedì 14 febbraio in contemporanea mondiale nei diversi Paesi (in Italia per i tipi di Mondadori), il nuovo libro di Dan Brown, Inferno, è già in testa alle classifiche.
Nelle prime pagine qualcuno sta fuggendo sulle rive dell’Arno e in mezzo alle bancarelle dei venditori ambulanti di Firenze. Ritroviamo poi una vecchia conoscenza, il professor Robert Langond, l’esperto di simbologia religiosa dell’Università di Harvard, che nei precedenti romanzi dello scrittore statunitense (Il codice da Vinci, Angeli e demoni, Il simbolo perduto), si trovava a dipanare, con le armi della cultura, dell’intuizione e di una smodata dose di fortuna, complessi enigmi e misteri a chiave.
Ora Langdon si sveglia da un incubo, ma scopre di trovarsi in un ospedale fiorentino. Non ha memoria di come sia finito nella città toscana, dal Massachusetts, dove insegna, ma ha la certezza di essere in pericolo, perché una cosa gli sembra di ricordarsela: per strada una donna, armata di una pistola con il silenziatore, ha cercato di ucciderlo. Chi è questa donna? Perché sta cercando di attentare alla vita del professore? Domande legate a una trama complicata, ricca di colpi di scena e di svolte inattese.
Al centro della storia, un mistero che ha a che fare con Dante Alighieri e, appunto, con il suo Inferno, la prima cantica della Divina Commedia.
Non si può dire che l’immediato successo della nuova opera di Dan Brown sia qualcosa di sorprendente: i suoi milioni di lettori sparsi per il globo (200 milioni sono le copie sinora vendute dei suoi libri) erano stati preparati alla pubblicazione di questo best-seller annunciato, attraverso un’abilissima strategia di marketing iniziata diversi mesi prima. Basti pensare che lo stesso titolo del romanzo è stato da lui rivelato attraverso una serie di tweet successivi (il suo hashtag è #DanBrownTODAY) ognuno dei quali scopriva un tassello di un’immagine oscurata sul sito Today.com, finché è stato possibile leggere per intero la parola “Inferno”.
Massima, fino all’uscita, era stata infatti la segretezza che circondava
l’operazione. L’editore americano di Dan Brown, Doubleday, aveva fatto
firmare a chiunque fosse venuto a contatto con il testo a tutti i
livelli della catena produttiva (redattori, traduttori, tipografi,
stampatori) un contratto che lo vincolava a un totale riserbo, con
penali salatissime in caso di mancata osservanza anche solo di una
clausola. Le stesse copie, una volta stampate e rilegate, sono state
custodite fino a martedì scorso dal più importante portale di vendita di
libri on-line, Amazon.com, in un capannone sorvegliato da vigilantes
armati ventiquattr’ore su ventiquattro.
Lo stesso Dan Brown è molto schivo e restio alle interviste (ma è
annunciata una sua conferenza stampa a Firenze il prossimo 6 giugno).
Quando lo abbiamo incontrato in una delle rare occasioni in cui si è
concesso alla stampa (la presentazione italiana del suo romanzo
precedente, Il simbolo perduto), ci aveva confessato di essere piuttosto
allergico ai clamori massmediali, perché l’eccesso di popolarità con
tutto ciò che ne consegue finisce per turbare la concentrazione
necessaria alla scrittura. “Con il successo”, ci aveva detto, “la mia
vita privata è mutata in maniera sostanziale: ho molti più soldi, sono
al centro dell’attenzione mediatica, viaggio in tutto il mondo. Sperò
posso dire che non è cambiato il mio rapporto con la scrittura. Mi alzo
tutte le mattine alle 4, lavoro 6 giorni su 7, per ogni pagina che
scrivo ne butto altre 10. Ai miei personaggi, quando scrivo, non importa
sapere quante copie ho venduto e quanto sono ricco e famoso. Continuano
a essere esigenti con me. Perché possano risultare credibili, mi
chiedono sempre molto lavoro”.
Una disciplina spartana che Dan Brown continua a imporsi nonostante le
cifre da capogiro delle vendite dei suoi libri e dei diritti derivanti
dalle fortunatissime trasposizioni cinematografiche (con Tom Hanks nei
panni di Robert Langdon). Da quando è uscito Il codice da Vinci,
esattamente dieci anni fa, Dan Brown si è rintanato nella sua casa
sull’Oceano a Rye Harbor, una cittadina del New Hampshire, dove vive con
la moglie Blythe Newlon (60 anni, mentre lui ne ha 49), il suo braccio
destro, che svolge le ricerche preparatorie per i suoi libri e che –
azzardano i maligni – forse di tanto in tanto ne scrive interi capitoli.
Ma lui alle critiche risponde facendo spallucce. “I critici di cui mi
fido di più”, ci ha detto, “sono i miei lettori”. Lettori che anche
questa volta, a leggere i dati relativi alle vendite, lo stanno
premiando in maniera impressionante.
Roberto Carnero
Il mondo è in pericolo: e chi impedisce all'umanità di salvarsi, mettendo in atto le necessarie strategie, se non la Chiesa? Nemmeno in Inferno Dan Brown smentisce la sua attitudine ad attaccare la religione e la Chiesa, considerandole un centro di oscurantismo, un'istituzione reazionaria, piena di segreti e misteri poco nobili, che contrastano il progresso.
Sia chiaro che qui non sono all'esame né le qualità letterarie dell'autore americano né le imprecisioni e mistificazioni storiche, sulle quali si soffermano altri articoli del presente dossier. Ci interessa soltanto rilevare che, come nei precedenti romanzi, viene sferrato un attacco alla Chiesa, volto a screditarne l'immagine. E il terreno su cui si consuma l'attacco, nell'ultimo lavoro di Dan Brown, non è di poco conto. A minacciare l'umanità è, infatti, la bomba demografica, il sovraffollamento del pianeta. Limitarlo e contrastarlo sarebbe possibile, in svariate forme, dall'aborto all'estensione del controllo della nascite, fino addirittura alla sterilizzazione, come si racconta nel romanzo; ma c'è qualcuno che, dichiarandosi contrario all'attuazione di questi mezzi, blocca l'umanità: ed è la Chiesa, ovviamente. Istituzione retrograda e nemica del progresso, dunque, perché non accetta l'idea della sterilizzazione o del controllo sistematico delle nascite.
Senza entrare nel merito della questione demografica - non è affatto certo che l'aumento della popolazione proceda ininterrottamente, ad esempio - il punto decisivo è che viene considerato nemico del progresso e del bene dell'umanità chi difende la vita...
Se questa è la questione centrale, non mancano altri aspetti discutibili, in Inferno, dai quali trapela con forza quello che è stato definito il pregiudizio anticattolico dello scrittore. A seguire la trama della sua opera, per dirne una, si ha l'impressione che Dante sia autore esclusivamente dell'Inferno e che il Purgatorio e il Paradiso siano tappe marginali e in definitiva trascurabili del suo viaggio...
Che cosa aspettarsi, d'altra parte, da chi aveva infarcito Il Codice da Vinci e Angeli e demoni di inesattezze storiche, falsità sulla religione, continue allusioni alla Chiesa e ai suoi rappresentanti tacciati di essere una setta oscurantista, impegnata a tenere l'umanità nell'ignoranza per celare segreti inconfessabili?
Nel Codice da Vinci, Brown confondeva le idee dei lettori - questo è il pericolo, alla fine - affermando che la figura alla destra di Gesù, nell'Ultima cena, non era Giovanni, bensì Maria Maddalena, la quale aveva sposato Gesù, dandogli anche una figlia. Con una gigantesca campagna di mistificazione, la Chiesa aveva nascosto la verità sulla relazione fra la Maddalena e Gesù... Solo l'elezione di un nuova Papa, finalmente progressista, avrebbe permesso di farla riemergere...
È solo un esempio, questo, fra i tanti possibili, della sistematica tendenza di Dan Brown a intorbidire l'immagine della Chiesa, facendola passare per un'entità reazionaria e ostile alla verità: operazione perseguita da una parte insistendo morbosamente sull'immaginario esoterico-religioso - che tanta presa ha, soprattutto su chi ha meno strumenti per difendersi - e dall'altra distorcendo la storia e il senso del messaggio cristiano.
«Il Vaticano mi odia», afferma a un certo punto di Inferno la direttrice dell'Organizzazione mondiale della sanità. «Anche lei? Pensavo di essere l'unico», risponde Robert Langdon, il professore di Simbologia di Harvard, protagonista di questo e dei precedenti romanzi, qui - ne siamo certi - alter ego dell'autore.
Peccato che sia vero il contrario: è Dan Brown a odiare la Chiesa, attaccandola ripetutamente sulla base di una montagna di falsità...
Paolo Perazzolo
Il bersaglio è il solito: la Chiesa Cattolica e il cristianesimo. Il pretesto stavolta è la Divina Commedia di Dante. «Insomma», chiosa lo storico Franco Cardini, «nulla di nuovo sotto il sole. Inferno di Dan Brown segue lo stesso copione dei suoi romanzi precedenti, Il codice da Vinci e Angeli e demoni». «La mia speranza», ha detto l’autore, «è che questo libro ispiri il pubblico a scoprire e riscoprire Dante».
Ma cosa c’è di dantesco in questo libro, professore?
«Quasi nulla. È solo un pasticcio di allusioni chiaramente pretestuose, incoerenti e semi incomprensibili. Detto questo, sono perfettamente d’accordo con l’auspicio di Dan Brown, ma non credo affatto che queste siano realmente le sue speranze. Il libro è un successo annunciato. Non si vendono cinquantamila copie in un giorno in un Paese povero di lettori come l’Italia se non hai alle spalle una tirannia mediatica che è la peggiore perché non si vede. Le tirannie totalitarie si vedono: c’è la polizia, gli apparati di consenso. Le tirannie mediatiche sono invisibili e perciò la gente è convinta di essere libera. Sta di fatto che cinquantamila persone hanno comprato un libro a scatola chiusa, ma la stragrande maggioranza di loro non è assolutamente in grado di valutare criticamente la Commedia, perché la conosce pochissimo e malissimo. Per loro Dante è un’icona. Dante vuol dire Benigni, è la retorica culturale che circola nell’aria, tanto la cultura non si fa ma ogni tanto se ne parla. Intanto, le cattedre di filologia dantesca scarseggiano e la società “Dante Alighieri” non ha i fondi per sopravvivere. Diciamolo chiaro: la gente che corre a comprare Dan Brown non dimostra affatto di aver letto Dante altrimenti l’Italia sarebbe migliore. Dopo la diffusione di questo best seller non credo affatto che ci saranno picchi d’acquisto della Divina Commedia, che manca purtroppo dalle case di migliaia di italiani. Dan Brown ha letto Dante in traduzione inglese e tutte le traduzioni in lingua straniera della Commedia non sono un granché. Alla base quindi c’è una scarsa conoscenza del capolavoro dantesco».
Solo conformismo, dunque?
«Direi proprio di sì. Firenze è uno splendido scenario per operazioni massmediatiche del genere. Pensiamo al grande successo che ebbe il film Hannibal ambientato proprio qui. Anche Benigni riempie le piazze quando legge Dante ma questo non vuol dire che la gente torna a leggere la Commedia. È solo un conformismo pseudo culturale che è uno dei tanti aspetti dell’odierna società dei consumi».
Il tema di Inferno è che siamo in troppi sulla terra e dovremmo diminuire attraverso politiche di selezione e controllo della popolazione. La “Peste nera”, ricercata dai protagonisti, è una sorta di pozione in grado di ridurre la popolazione mondiale da 7 a 4 miliardi di persone. Più che dantesco è un romanzo malthusiano, non trova?
«È profondamente malthusiano. Siamo nel solco dell’umanesimo biologico e umanitario di Hitler o Stalin, entrambe persone sinceramente interessate a migliorare l’umanità e il mondo partendo da alcuni presupposti agghiaccianti. D’altra parte, si sa, di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno! Il libro di Dan Brown s’inserisce in questa prospettiva. Che poi lui lo voglia o no, che intendesse farlo o meno, questo non importa. Si tratta di un grosso, pesante, illeggibile e mal scritto mattone anticattolico. Speriamo che non venga letto molto. Molti l’hanno già comprato ma questo non significa che tutti lo leggeranno».
Nel mirino c’è la Chiesa?
«È evidente che gli editori di Dan Brown
attraverso questo romanzo vogliono colpire la politica di difesa della
vita della Chiesa Cattolica, la quale si può discutere certo, come
avviene anche all’interno del mondo cattolico, ma va rispettata.
Fondamentalmente si vuole colpire un’organizzazione che cerca di
tutelare gli ultimi della terra e tra gli ultimi ci sono anche gli
embrioni. Siamo di fronte all’ennesima pesante offensiva tesa a
screditare la politica della Chiesa attraverso la glorificazione dello
sterminio malthusiano. Se questa non è un’operazione infame, che cos’è
allora? Perché si può dire che il Mein Kampf di Hitler è infame e
Inferno di Dan Brown no? Questo libro colpisce la Chiesa cattolica come
già è successo con Angeli e Demoni e il Codice da Vinci. Peccato che
molti cattolici non se ne rendano conto oppure lo sanno benissimo e in
qualche modo approvano la manovra. Bisogna mettere in guardia i
cattolici. Non so se Dan Brown sia un furbo che ha fiutato il vento e si
è messo sulla linea dell’offensiva anticattolica che fu scatenata da
George W. Bush nel 2002 quando si trattava di colpire Giovanni Paolo II
che era contrario alla guerra in Afghanistan e in Irak. All’epoca fu
tirata fuori, guarda caso, la questione pedofilia all’interno della
Chiesa statunitense che esiste, sia ben chiaro, ma s’innestò
sull’anticattolicesimo cronico di molte sette protestanti, le stesse che
stanno sradicando il cattolicesimo dall’America Latina ad esempio. Qui,
come in alcune zone dell’Africa peraltro, grazie alle sette protestanti
e alla superpotenza che le appoggia il cattolicesimo è sul punto di
essere sradicato».
Non è un po’ esagerato, professore? In fondo si
tratta di un thriller…
«Non sono affatto raccontini ingenui o
divertenti. Si tratta di successi annunciati, pianificati a tavolino e
costruiti in modo seriale. Io conosco autori italiani di thrilling neri o
misteriosofici, un nome per tutti Leonardo Gori, che sono molto più
bravi di Dan Brown per riferimenti culturali, linguaggio e qualità di
scrittura. Vendono le loro 4-5mila copie ed è già un grandissimo
successo. Qualitativamente sono molto migliori di Brown ma non rientrano
nel grande gioco editoriale che non è ingenuo: ha l’obiettivo non solo
di vendere ma di seminare e diffondere idee ben precise».
Dan Brown per i
cattolici è un pericolo, quindi?
«È strano che l’opinione pubblica
cattolica s’indigni quando qualche gruppo musulmano incendia le chiese
in Africa o in Asia o ammazza dei sacerdoti. È giusto che lo faccia,
attenzione. Ma questi sono fenomeni sotto gli occhi di tutti e di cui i
media più o meno parlano. Accanto a questi, ci sono però altri fenomeni
più subdoli, come quello del successo di Dan Brown, che passano sotto
silenzio o, peggio, vengono presi come simpatiche amenità. Eh no,
bisogna svegliarsi un po’. Soprattutto per quanto riguarda i media
cattolici».
Antonio Sanfrancesco
Dedicato a tutti quelli che pensano che i critici e gli studiosi siano parrucconi fuori dal tempo. Marco Santagata, docente all’università di Pisa, non è di quelli e le sue parole lo provano, molto di più e molto meglio dello slogan con cui il suo editore ha lanciato la sua Guida all’Inferno: «Tutto quello che dovete sapere sull’inferno in attesa del nuovo libro di Dan Brown».
Professore, si aspettava che la sua Guida all’Inferno di Dante sarebbe stata lanciata così?
«Devo dire che non l’avrei mai immaginato, ma Dante ci ha abituato alle sorprese da quando è diventato un autore pop: direi che ci sta. Non avrei previsto Dan Brown, ma non ho dubbi sul fatto che sia una ricezione non canonica di Dante».
La Commedia, soprattutto l’Inferno, ha avuto una enorme fortuna postuma che potremmo definire esotica. Si pensi a Benigni, ma anche a Piumini e Altan che gli hanno rifatto il verso in terzine qualche anno fa. A che cosa si deve questo successo?
«A un accumularsi di fenomeni, ma è certo che neppure nel Trecento Dante è stato popolare come oggi. Anzi, è stato dimenticato per secoli e deve la fortuna della riscoperta alla cultura risorgimentale dell’Ottocento, al concetto del padre della Patria, delle radici, dell’identità. Oggi questo discorso non vale più, ma Dante è tuttora popolarissimo».
Saprebbe spiegarci il perché?
«Direi che lo debba al fatto di essere entrato gradualmente nel grande circuito della comunicazione. Il primo a rompere l’aura accademica e scolastica attorno a Dante forse è stato Sermonti, poi il colpo grosso l’ha fatto Benigni mobilitandogli attorno le folle. Ma sono tanti i fenomeni di contorno: persino Walt Dysney ha fatto un Topolino all’Inferno. Ma a decretarne la consacrazione è stato l’ingresso nel mondo della pubblicità. Si pensi allo spot recente di un rotolo di carta da cucina. La cosa curiosa di quella pubblicità è la scritta in calce. Vi si legge: “Firenze, 1308. Dante finisce la Divina Commedia”. Per chi abbia un minimo di cultura dantesca la scritta ha dell’incredibile: nel 1308 Dante non era a Firenze e ha finito la Commedia alla fine della vita, nel 1321. Sarebbe bastato un giro su google per risparmiarsi lo svarione. Questo dimostra che il Dante pop ha una vita indipendente rispetto al Dante degli studi e degli studiosi, pure lui fortunatissimo. Non basterebbero tre vite per leggere tutti gli studi che sono stati
prodotti su Dante ma i due mondi, quello pop dei media e quello degli
studiosi, procedono paralleli senza un ponte senza un ponte che li metta
in contatto».
Scrivendo la Guida all’Inferno ha pensato di gettare quel ponte?
«Sì, l’ho pensato proprio come ponte. Più che ai lettori di Dan Brown
pensavo agli stranieri che magari conoscono l’italiano e Dante, ma hanno
grande difficoltà ad accostarsi al testo, l’ho pensato come una specie
di surrogato. Ma ho l’impressione che in questo senso possa funzionare
anche presso un pubblico italiano. Oggi Dante viene veicolato soltanto
attraverso libri che hanno una struttura fissa: canto introdotto da un
cappello e note che spiegano il testo. Questa forma si rivolge in
maniera indistinta agli studenti, agli studiosi e a un pubblico
generico, come se le esigenze fossero le stesse: una formula di quel tipo
funziona per chi deve studiare, ma può respingere un lettore cuorioso
che studente non è più, perché fa pensare a un libro particolarmente
difficile e poi introduce l’idea sbagliata che la Commedia sia una
giustapposizione di episodi e non il racconto continuo che invece è».
Il personaggio principale di Dan Brown è un professore di Harvard. E’ un
fatto che Dante desti anche nella realtà un grande interesse accademico
all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Come è possibile visto che
riesce ormai ostico anche agli studenti italiani?
«Dante ha una lingua difficile, antica e desueta, ma noi da decenni
siamo abituati a leggere testi ostici: la sua difficoltà carica di
sottintesi è una modalità narrativa familiare ai lettori del 2013,
abituati a fruire testi letterari, filmici, ma penso anche a quelli che
circolano nelle clip, in cui viene inglobato il “non detto” e il “non
noto”. Direi che gli studenti contemporanei sono naturalmente attrezzati
a questo, magari anche più dei loro professori abituati a una scrittura
più classica. Quanto agli stranieri, possiamo rispondere con altri
esempi: Omero gode di analoga fortuna e non è che il mondo sia pieno di
grecisti, l’inglese è più conosciuto ma Shakespeare è notissimo anche in
contesti in cui l’inglese si parla poco. Di fronte a testi che sono
creatori di miti e che una volta creati hanno vita propria, lo strumento
linguistico non è più di ostacolo. Saper intepretare bisogni, paure,
sentimenti profondi, dando loro forma universale, è nello spirito dei
classici».
Dante è intriso di riferimenti culturali cristiani. E’ più difficile
leggerlo dove non ci sono?
«Io credo che di pari passo con la laicizzazione della società proceda
la laicizzazione di Dante. La tematica più propriamente religiosa di
Dante, che può risultare molto lontana dalla sensibilità di molti
lettori di oggi, diventa un tema tra i temi, non è più recepita come un
momento vitale nella costruzine del testo. Questa è sicuramente una
perdita rispetto alla ricchezza del testo, ma è una perdita che libera
Dante da una qualche ipoteca e fa venire in primo piano una fruizione
puramente estetica, con il risultato di allargare il campo a nuove
acquisizioni e punti di vista. E’ il destino dei grandi classici. Il
sistema di valori civili e religiosi di Virgilio a noi risce del tutto
estraneo, ma non ci è estraneo il discorso sull’uomo di Virgilio».
Chiudiamo il cerchio: abbiamo scherzato sul fatto che Dan Brown è
diventato il veicolo del suo libro. Visto che lo sta leggendo, ci dica
come un critico studioso di Dante si accosta a questa lettura?
«Ho letto giorni fa sul Sole24ore una stroncatura del libro di Dan
Brown: veniva trattato come un insieme di sciocchezze e banalità.
Ne sono rimasto non poco colpito. Non sto dicendo che il libro sia un
capolavoro, ma quella stroncatura è un bell’esempio di provincialismo
italiano, nel senso che Dan Brown e la cultura narrativa americana hanno
tutto quello che manca a noi: sanno raccontare come molti narratori
italiani, per una infinità di ragioni, con poche eccezioni, non sanno
fare. Putroppo anche i lettori italiani, abituati a una narrativa che
non è narrativa, da un lato guardano a questi prodotti con spocchiosità,
dall’altro lato però, se sono sinceri, anche con un po’ di invidia. Io
un po’ di invidia per queste persone che riescono a tenere la tensione
del lettore per centinaia di pagine sul nulla – perché è vero che il
libro di Dan Brown è costruito sul nulla – ce l’ho: è una dote e va
riconosciuta».
Elisa Chiari
Uno dei danni collaterali inflitti dal successo di Dan Brown ai lettori di tutto il mondo, è il proliferare di una schiera di epigoni a buon prezzo che affollano le librerie con le loro storie improbabili, in cui un paio di millenni di cristianesimo sono visti come un'unica sequela di complotti, intrighi, preti che fanno gli agenti segreti, vescovi che dirigono società segrete, reliquie che nascondono biglietti con la ricetta per l'immortalità, catacombe dove agiscono emissari del male, banche che appartengono alla Chiesa, studiosi che conservano l'unica vera versione della vera fede e così via.
Eppure, a fare quattro conti con le date, anche Dan Brown è il prodotto di qualcun altro. Anzi: di qualcos'altro. Il codice da Vinci, il suo strepitoso successo di vendite, viene pubblicato nel 2003. L'anno dice niente? E' l'anno dell'invasione dell'Iraq. Qui non si tratta di "buttarla in politica" ma solo di ricordare che cosa furono quegli anni. Dopo gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono da parte di Al Qaeda, furono rase al suolo intere foreste per pubblicare libri la cui unica tesi era sostanzialmente questa: la religione islamica è per sua natura cattiva e oscurantista. Chi osserva i suoi precetti non può essere che cattivo e oscurantista a sua volta. Quindi, i musulmani sono cattivi per natura.
Era lo sfondo culturale (meglio dire, pseudo-culturale) di cui si serviva la propaganda della destra americana per giustificare la teoria degli "attacchi preventivi". Sono cattivi per natura, quindi prima o poi faranno qualcosa di cattivo. Se li attacchiamo per primi non saremo aggressori, semplicemente eviteremo che ciò accada.
Le teorie di questo genere, però, hanno un brutto difetto: possono essere applicate a chiunque ci aggradi. E infatti non sarebbe passato molto tempo prima che qualcuno alzasse la mano e dicesse: attenzione, non solo l'islam è cattivo, tutte le religioni sono cattiva e fanatiche. E' l'idea stessa di religione a essere retrograda e pericolosa.
E infatti. Nel 2003 esce Il codice da Vinci, il cui successo mondiale si spiega (non solo ma) anche con il clima che abbiamo appena descritto. I musulmani sono fanatici ma i cattolici sono infidi e capaci di pervertire la vera dottrina di Gesù. Mica male. Nello stesso periodo proliferano i pamphlet ateistici che, forse non per caso, sono scritti da autori che in politica simpatizzano in modo palese con le posizioni della destra americana. Per esempio Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa dell'inglese naturalizzato americano Christopher Hitchens, amatissimo dalla destra anche nostrana. Oppure The End of Faith (La fine della fede) dell'inglese Sam Harris, il cui contenuto, stili a parte, pare ricalcato con la carta a carbone: credere è assurdo, la religione intossica la mente delle persone.
Il successo di Dan Brown è figlio di quell'epoca e di quello spirito. Basta fare la prova del nove: perché i suoi romanzi anteriori al Codice da Vinci, anche se ripubblicati dopo il trionfo di quel romanzo, non hanno avuto alcun successo? Leggeteli e capirete perché: non attaccano la fede, non criticano chi crede. Sono dei modesti gialli di genere, come tanti tanti altri. Se non critica la religione, se non solletica l'istinto a sentirsi migliori che alberga negli agnostici e negli atei, Dan Brown non esiste.
Fateci caso: ormai non c’è quasi più articolo scritto dai cosiddetti “vaticanisti” che nel riferire di cose curiali non faccia ricorso al manierismo di Dan Brown. Non solo quando si tratta di raccontare le vicende di maggiordomi spioni o monsignori che hanno tradito la propria vocazione, ma anche se il tema riguarda i francobolli della Santa Sede o il giuramento delle guardie svizzere. Che articolo è senza un corvo, o almeno un corvetto che spiffera qualche transazione di denaro sporco o qualche documento pontificio che evoca leggende nere?
L’importante è ambientare tutto come una suggestiva location di Angeli e Demoni, scorgendo ovunque congiure, truffe, cospirazioni, in un’atmosfera di intrigo che rimanda necessariamente alla corte dei Borgia, o almeno ad Assassin Creed. Insomma: il genere letterario di Dan Brown – gnostico, ateista, laicista quanto si vuole ma tutto sommato legittimo, trattandosi di "arte", o meglio di un "fumettone" per vincere l'insonnia o passare due ore in treno - è diventato un genere giornalistico, spesso e volentieri disonesto. Nei saggi degli inchiestisti sulle vicende della Curia romana ormai la simbiosi con i romanzi browneschi è praticamente totale. Lo ha sostenuto espressamente persino il segretario di Stato Tarcisio Bertone.
Ha scritto sul Messaggero la storica Lucetta Scaraffia: “Esiste ormai da molti anni un particolare genere di letteratura dedicata al giallo in Vaticano, ma è soprattutto dopo il Codice Da Vinci, che questo genere è decollato alla grande. Sono in molti oggi gli autori e gli editori che sperano nel successo internazionale puntando in vario modo a “scoprire gli altarini”, è proprio il caso di dire, dissacrando la Chiesa che nonostante tutto ha mantenuto una qualche forma di sacralità o almeno di rispettabilità – anche agli occhi dei non credenti”.
Naturalmente al centro di tutto c’è lo IOR, la banca del Vaticano. Che, va detto, un po’ se l’è cercata, visti gli episodi nefasti di cui si è macchiata ai tempi di Marcinkus e di Donato de Bonis. Ma qualunque sforzo di trasparenza venga fatto da almeno 20 anni a questa parte dalle parti del torrione Niccolò V non ha nessuna importanza. Del rapporto ai media di 64 pagine come quello recente sull’iter di trasparenza finanziaria intrapreso dalle finanze vaticane in campo internazionale, con l’avvenuta valutazione positiva del Gafi e di Moneyval, sono stati presi dai giornali di tutto il mondo solo i sei casi citati di ispezione e indagini per sospetto riciclaggio. Eppure non risulta che vi siano banche, in tutto il mondo, che fanno conferenze stampa su simili episodi, che certamente avvengono.
E così succede che ancora una volta l’Istituto finanziario vaticano
venga ridipinto come una lavanderia di denaro sporco.
Commenta Angiolo Bandinelli, sul Foglio: “Nell’immaginario corrente il
Vaticano è la location perfetta di crimini e violenze d'ogni genere. In
questo ruolo, il Vaticano è la sintesi, la quintessenza di una
amata-odiata Italia nella quale l'intrigo, l’ipocrisia e la perfidia,
l'assassinio, la gelosia come malattia dell'anima sono gli storici,
eterni ingredienti che rendono sulfureo e infido un paese di bellezze
irripetibili, dunque invidiate e insidiate (…). Sarebbe difficile fare
la conta di tutto quanto si è scritto sulle malefatte del Vaticano, anzi
dei "sotterranei" del Vaticano. Il sesso, in ogni declinazione
possibile, è ovviamente al centro. Quasi sempre in combinazione con il
denaro: eccita tremendamente elucubrare di immense ricchezze nascoste
sotto la cattedra di San Pietro, un illimitato forziere messo assieme
dall'avidità curialesca e pretesca”.
Forse l’unico modo per liberarsi da questi pregiudizi
mediatici duri a morire e contribuire a riportare un'informazione corretta sulle faccende curiali è assumere Dan Brown in Vaticano a fianco di padre Lombardi e Greg Burke. Potrebbe essere un ottimo antidoto. Anche
se un contratto di consulenza potrebbe costare caro alla Santa Sede.
Francesco Anfossi