Daniele Silvestri ci invita ad
alzare lo sguardo. Nella hall
dell’albergo dove ci incontriamo
tutti sono impegnati
nella stessa attività: smanettare
con il loro cellulare.
«Non sappiamo più vivere l’attesa».
In un brano del suo nuovo album,
La mia routine, Daniele canta: “Io sto
bene con la mia routine, lascio a te la
tua rivoluzione. A me interessa solo
non dimenticare il Pin, perché ho tutto
sul mio terminale. Posso andare dove
voglio con un solo click, rimanendo
qui senza muovermi”.
Le nuove tecnologie ci stanno
quindi rendendo più conformisti? Il
cantautore ci pensa un po’: «Fino a
qualche tempo fa avrei risposto senza
esitare di sì. Ora sono più dubbioso,
perché questi strumenti ci offrono
una possibilità di aprirci al mondo che
non abbiamo mai avuto. Solo che bisogna
fare la fatica di non fermarsi
alla prima cosa che ci capita sotto
gli occhi, ma di esplorare, mentre queste
tecnologie all’opposto ci invitano a
fare tutto veloce e senza sforzo. E comunque,
la realtà resta sempre fuori».
La realtà che fa da filo conduttore
all’album Acrobati, fin dal singolo Quali
alibi, pungente atto d’accusa alla classe
politica dove si parla di “una specie
di governo, ma di terza mano. Con un
programma mai approvato che però
seguiamo”. E di un parlamentare a cui
Daniele chiede: “Per quali metodi meriti
la tua indennità? Quali labili crediti
credi di avere qua? Per quali taciti
traffici illeciti eviti di dire che c’è chi ti
recriminerà?”. Ma queste accuse non
rischiano di essere a loro volta un alibi
per noi? Siamo sicuri di essere così diversi
da chi ci rappresenta? «Di sicuro
se la scaltrezza prevale sull’onestà
è perché trova attorno un terreno
fertile. Siamo un Paese che applaude
con più facilità chi vince con furbizia
anziché chi perde con onore».
E allora meglio volare, come fa il
protagonista di Acrobati che osserva
il mondo dall’oblò di un aereo, un
mondo che “sembra ben organizzato.
Dell’uomo cogli l’operato serio, il tratto
netto, duro ed ordinato. Reticoli di
campi cesellati, di cui non percepisci
mai l’arsura”. A Daniele premeva dire
che «l’uomo è capace di cose meravigliose,
ma si riesce ad apprezzarle
solo osservandole da lontano, anche
storicamente, perché da vicino tendiamo
purtroppo a vedere solo le nostre
bruttezze». La canzone termina così:
“Dall’alto c’è sempre qualcuno che
guarda”. «Mi piaceva l’ambivalenza di
questa frase», spiega il cantautore. «Da
un lato può riferirsi a poteri terreni,
dall’altro all’apertura a una dimensione
trascendente».
Di disco in disco, Daniele affina
sempre più le due peculiarità dei suoi
testi: la capacità di inventare storie
come se fossero dei film e il gusto per i
giochi di parole. L’amore per il cinema
risale all’infanzia, quando frequentava
il cinema parrocchiale del suo quartiere
a Roma: «Era di fronte alla scuola
e l’orario dell’uscita corrispondeva
con quello dell’inizio della prima proiezione.
Ogni giorno c’era un film diverso
e io ero sempre lì. Solo una volta,
per Guerre stellari, con altri amici organizzammo
una specie di petizione per
convincere il parroco a programmarlo
per un’intera settimana».
L’amore per la parola è invece un
regalo di papà Alberto che giocava
con lui a creare delle filastrocche in
rima. «Era capace al mattino di avvicinarsi
al letto e dirmi: “Alzati Daniele,
la colazione è pronta. C’è il pane con il
miele e poi c’è tua madre tonta”. E io, lì
per lì, dovevo trovare una risposta. Era
un modo straordinario per accendere
la mia fantasia». Un amore che a sua
volta Daniele ha trasmesso ai suoi tre figli, che ha citato nei ringraziamenti
che accompagnano il Cd. «I due più
grandi, Pablo e Santiago, che hanno
13 e 12 anni, per la prima volta
hanno voluto seguire la realizzazione
di un mio disco». E a un certo punto,
mentre lavorava a La mia routine,
Santiago ha improvvisato un beatbox,
tecnica che consiste nel riprodurre i
suoni di una batteria con la voce. «L’ho
sentito, ho fatto mettere un microfono
a sua insaputa e l’ho registrato».
Il piccolo Oliver, invece, proprio in
quelle settimane ha imparato a dire
papà. E ora? «Gli piace stravolgere le
parole. Le sa pronunciare benissimo,
ma a volte le reinventa perché non gli
piace il loro suono. Così “costruzione”
diventa “cocune” e “palla” diventa “papanua”.
Secondo me sono bellissime,
ma mi rendo conto che è il punto di
vista di un padre innamorato».