Così il Ministero della cultura presentava il Dantedì nel 2021. Sopra e in copertina: la ricostruzione del volto di Dante Alighieri fatta dall'Università di Bologna. Foto del 16 gennaio 2007 dell'agenzia di stampa Ruters
È la data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’aldilà della Divina Commedia. Istituita nel 2020 dal Consiglio dei ministri la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri si ripresenta puntuale ogni anno il 25 marzo per celebrare - in tutta Italia e nel mondo - il genio del Sommo Poeta. L’edizione del 2021, caduta nel settecentesimo anniversario della sua morte, ha visto anche la pubblicazione della Lettera apostolica Candor Lucis æternæ (Splendore della luce eterna) nella quale papa Francesco riflette sulla figura e sull'opera di Dante. Ne aveva già diffusamente parlato il 4 maggio 2015, Jorge Mario Bergoglio, in un Messaggio inviato al Presidente del Consiglio della cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, in occasione della celebrazione del 750° anniversario della nascita dell'Alighieri.
«Dante è profeta di speranza, annunciatore della possibilità del riscatto, della liberazione, del cambiamento profondo di ogni uomo e donna, di tutta l’umanità», scrisse il Papa. Egli ci invita ancora una volta a ritrovare il senso perduto o offuscato del nostro percorso umano e a sperare di rivedere l’orizzonte luminoso in cui brilla in pienezza la dignità della persona umana. Onorando l'Alighieri noi potremo arricchirci della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia, per giungere alla méta sognata e desiderata da ogni uomo: «l’amor che move il sole e l’altre stelle (Par. XXXIII, 145)».
Andrea del Castagno (1421-57), Dante Alighieri, affresco strappato senza cornice, Firenze, Galleria degli Uffizi. Foto Ansa.
Dante, guelfo moderato e difensore del Papa, era in ogni caso propenso alla teoria dei due soli, concependo la Chiesa e l'impero come due poteri ciascuno indipendente e sovrano nella propria sfera di competenza. Dante in realtà sosteneva la necessità di coesistenza tra il Pontefice e l'imperatore, i quali, per il pensatore fiorentino, dovevano entrambi avere la loro sede in Italia, in particolare a Roma, e non oltralpe. Questo pensiero fu reso esplicito e approfondito nel De Monarchia scritto - secondo le indicazioni più accreditate - tra il 1312 e il 1313. La recezione diel libro non fu aiutata dalla lotta tra guelfi e ghibellini, tra il potere temporale della Chiesa e quello imperiale. Il De Monarchia fu messo all'indice, finendo dritto dritto tra i libri proibiti ai buoni cristiani.
Andò meglio alla Divina Commedia, di cui si valorizzò soprattutto l'insistito desiderio di purificazione della Chiesa. «Al Concilio di Costanza (1414-1418), dove si metteva in discussione l’autorità assoluta del Papa romano, il vescovo Giovanni Bertoldi da Serravalle per diffondere i valori morali e teologici dell’opera tra i fedeli produsse la prima traduzione in latino della Commedia (1416), con commento denso di richiami danteschi sul rinnovamento ecclesiale», ha di recente ricordato la dantista Gabriella M. Di Paola Dollorenzo sul quotiadino Avvenire. «In quell’atmosfera di riforma si generò il primo grande esempio di dantismo papale con Enea Silvio Piccolomini, Pio II (1458-1464), la cui formazione umanistica s'intrecciava con il cursus honorum ecclesiastico e diplomatico. Il Concilio di Basilea (1431-1445), durante il quale, nel 1436, erano stati chiamati i dantisti Francesco Filelfo e Antonio da Rho, vide il futuro Pio II al servizio di Kaspar Schick, cancelliere imperiale alla corte di Federico III. L’afflato riformatore di Dante tornò a rivivere nell’opera e negli scritti di Pio II: da esso derivò la condanna della corruzione delle corti, il sostegno all’autorità imperiale e, soprattutto, il potenziamento del ruolo pastorale del Papa. Due secoli dopo, la culla del dantismo senese accolse un altro Papa di straordinaria genialità e spiritualità: Fabio Chigi, Alessandro VII (1655-1667). Il dantismo di Alessandro VII si contestualizzò nell’estetica o teologia della Controriforma».
In seguito, la cultura illuminista mise in discussione lo Stato pontificio. «La risposta fu il Concilio Vaticano I (1869-1870), che riaffermò con la costituzione Pastor Aeternus il primato e l’infallibilità del Papa nella definizione del dogma», osservca ancora la professoressa Gabriella M. Di Paola Dollorenzo, «ma il successore di Pio IX, Leone XIII, spalancò le porte al dantismo papale contemporaneo. Il dantismo leoniano da una parte coincise con la fine del potere temporale dei Papi, dall’altra si “tradusse” nella Dottrina sociale della Chiesa, espressa nella Rerum novarum (1891); un legame ben ricostruito da Giacomo Poletto in La riforma sociale di Leone XIII e la dottrina di Dante Alighieri (1898)».
Un dipinto raffigurante Dante Alighieri in esilio, opera di Domenico Peterlini (o Petarlini, 1822-1891), archivio di Palazzo Pitti. Foto Ansa.
E siamo arrivati alla vigilia dei nostri giorni, quando i successori di Pietro riproposero Dante Alighieri per la sua attualità e per la sua grandezza non solo artistica, ma anche teologica e culturale. Benedetto XV, in occasione del sesto centenario della morte, scrisse su di lui addirittura un'enciclica, la In praeclara summorum, datata 30 aprile 1921. Con essa il Papa evidenziò «l’intima unione di Dante con la Cattedra di Pietro». Ammirando «la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno», il Pontefice invitò a «riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina» e a considerare l’importanza di una corretta e non riduttiva lettura dell’opera di Dante soprattutto nella formazione scolastica ed universitaria.
San Paolo VI, poi, ebbe particolarmente a cuore la figura e l’opera di Dante, a cui dedicò, a conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II, la Lettera apostolica Altissimi cantus, in cui indicò le linee fondamentali e sempre vive dell’opera dantesca. Govnni Battista Montini affermò che «nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica» E aggiunse: «Il fine della Commedia è primariamente pratico e trasformante. Non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in alto grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso». Paolo VI, poi, citò il significativo passo della lettera del Poeta a Can Grande della Scala: «Il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità».
«Anche san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI», ebbe a dire papa Francesco nel già citato Messaggio del 4 maggio 2015, «si sono spesso riferiti alle opere del Sommo Poeta e lo hanno più volte citato. E nella mia prima Enciclica, Lumen fidei, ho scelto anch’io di attingere a quell’immenso patrimonio di immagini, di simboli, di valori costituito dall’opera dantesca. Per descrivere la luce della fede, luce da riscoprire e recuperare affinché illumini tutta l’esistenza umana, mi sono basato proprio sulle suggestive parole del Poeta, che la rappresenta come «favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla» (n. 4; cfr. Par. XXIV, 145-147)».
Prossimamente, su Famiglia Cristiana, Credere e Maria con te in edicola a partire da giovedì primo aprile notizie, approfondimenti e commenti d'autore, dal cardinale Gianfranco Ravasi a don Luigi Ciotti, dallo storico Andrea Riccardi alla scrittrice Mariapia Bonanate, dal filosofo Silvano Petrosino ad Andrea Monda, direttore dell'Osservatore Romano.