"Come stai?" È la domanda che ci si fa ovunque, quando ci si chiama, quando ci si scrive, quando ci si incontra, spesso trovando in risposta un “bene” di circostanza. Difficile, infatti, che sia si stia davvero bene, in un tempo storico in cui si vive, come dice il titolo del Festival, Nella morsa. Salute, diseguaglianze e guerra.
Il festival dei diritti umani, in programma in streaming sulla piattaforma festivaldirittiumani.stream dal 4 al 6 maggio, con un’anteprima il 3 maggio in presenza a Milano con Silvio Garattini, si è dato questo titolo per cercare una risposta.
Per questo Festival 2022, giunto alla settima edizione, anche nella sua anticipazione del 9 aprile 2022, ha scelto di concentrarsi sul diritto alla salute, per capire che cosa davvero voglia dire, ora che questi momenti difficili ci costringono a ripensare tante cose, e quali siano le strade per tendervi nell’accezione che si trova nell’atto di nascita dell’Oms: benessere fisico, mentale, sociale.
Il tutto in un filo rosso tra ragazzi delle scuole, che saranno ospiti e protagonisti delle mattinate dedicate e a loro e adulti, destinatari dei programmi pomeridiani della tre giorni. Il tema della salute, che ne è il filo conduttore, va preso in senso ampio, come ha spiegato bene Massimo Cirri, storica voce di Caterpillar a RadioDue, psicologo nella vita che per molti anni ha coniugato radio e mattine al Centro di salute mentale di Milano, intervenuto all’anteprima di presentazione con il direttore del festival Danilo De Biasio, i fotografi Jean-Marc Caimi & Valentina Piccinni, Anita Pirovano, presidente del Municipio 9 - Milano e l’onorevole Filippo Sensi con la partecipazione di studenti delle superiori che hanno studiato gli effetti psicologici della pandemia sui loro coetanei
«Il nodo fondamentale», ha osservato Cirri, «sta nel fatto che con il Covid per la prima volta abbiamo sperimentato nella nostra vita una rottura dirompente che, non a caso, gli anziani che la ricordavano, prima che ne irrompesse di nuovo una vicino a noi, hanno paragonato alla guerra. È una rottura di cui dobbiamo ancora capire gli effetti: mi ha fatto riflettere il fatto che mio figlio abbia vissuto sei mesi di stage senza mai vedere il suo ufficio e che in seguito abbia incontrato i suoi attuali colleghi solo dopo molti mesi di lavoro condiviso a distanza. Tutto questo ci dice che di tornare in un circuito di comunicazione, di riconoscere e dare voce alle nostre fragilità, come diceva una delle ragazze intervistate: se ne deve occupare la scuola, se ne deve occupare il servizio pubblico: non dimentichiamoci mai che la solitudine è l’aggravante di ogni patologia, un costo sociale enorme. Va bene il bonus psicologico, ma servono macchine sociali che tengano insieme le persone e le loro sofferenze».
Salute, diseguaglianze e guerra, tema che il Festival svilupperà nelle sue sezioni tra incontri, film e fotografie (qui il programma) non sono tre cose distinte, si amplificano a vicenda.
Nulla può rendere il concetto meglio della testimonianza di Damiano Rizzi, psicologo presidente della Ong Soleterre intervenuto da Leopoli: «Qui», racconta, «gli ospedali stanno funzionando, arrivano bambini dall’Est bambini feriti che trovano una prima cura e stabilizzazione, dove possono. I bambini oncologici, invece, li abbiamo evacuati in Europa, perché non era più sicuro tenerli qui. In queste ore c’è un tentativo di tornare alle normalità, ieri e stamattina non hanno suonato sirene. Ma la guerra è per ciascuno una cosa diversa. Ci sono pazienti oncologici che non possono essere spostati: per loro la guerra è la speranza che arrivi qualcuno a portare aiuto. Un aiuto diverso a seconda di dove sei: sulla linea del fronte servono acqua, cibo e farmaci. Più ci si allontana più servono farmaci, chemioterapici, analgesici... Vengo ora da un ospedale dove c’è un bambino, viene da un orfanotrofio a Kiev, non ha nessuno, è in dialisi, attende il trapianto di rene, la sua famiglia siamo noi che lo coccoliamo il più possibile e l’infermiera che è scappata con lui. Penso alla famiglia arrivata ieri dal massacro alla stazione: già curare un bambino malato di cancro è una cosa difficile, farlo in guerra molto di più. Curare in guerra vuol dire portare bambini a braccia quando ci sono gli allarmi aerei, perché nei bunker ci sono rischi enormi di infezioni, sono posti umidi, di cui le immagini non rendono gli odori. Li chiamano shelter bunker ma sono cantine, il posto più profondo in cui ci si può rifugiare: guerra è andare in cantina e farsi curare. Quando è scoppiata la guerra il 24 di febbraio a Kiev i pazienti oncologici che seguiamo sono stati 5 giorni nel bunker, il sesto giorno c’è stata un’evacuazione medica, in treno, poi a piedi: ne abbiamo portati 94 in Italia, in 19 ospedali, alcuni sono al San Matteo di Pavia dove lavoro. Ma guerra sono anche i 3.000 bambini che non si trovano più perché sono a Mariupol e non si riesce a raggiungerli, curare è salvare vite anche dalle bombe, ma se non sai dove sono neanche quello puoi fare. Quando racconto a me stesso questa cosa mi sembra sempre non vera, una storia che nessuno avrebbe voluto raccontare né sentire».