Il Direttore Claudio Longhi e il regista Davide Enia alla conferenza di presentazione dello spettacolo
Posto in fine di stagione per chiudere il cerchio con una riflessione complessiva sul senso del teatro, che “riflette” coerentemente le direttive concettuali che hanno guidato la produzione artistica del Piccolo Teatro appena trascorsa, il progetto Eleusi. Dittico sul sacro di Davide Enia «supera lo steccato della rappresentazione», per approdare nell’indefinito spazio della performance. E la peculiarità è che si rifrange dentro Milano, si apre un varco nella città e nella storia: nel presente, tracciando un percorso tra il Teatro Paolo Grassi e il Teatro Studio Melato, nel passato, revitalizzando spazi che avevano una destinazione e uno scopo completamente diverso rispetto a quello attuale.
Eleusi, non a caso, era la località di destinazione, nell’Antica Grecia, del pellegrinaggio di iniziazione che terminava con i misteri eleusini, uno dei più importanti e antichi riti della cultura ellenica. Una performance di venti minuti quindi al Grassi all’inizio di ogni ora e un susseguirsi di canti, curati da Cori Lombardia APS e dall’Accademia Teatro alla Scala, ininterrotti per 24 ore, tra le 21 di sabato 10 giugno e le 21 di domenica 11 giugno.
Torna quindi dirompente, nell’orizzonte secolarizzato in cui verte il mondo contemporaneo, il tema del sacro. «Il sacro è un concetto spaventoso: in quanto vox media, indica ciò che tende sia al bene sia al male. Potremmo dire, brutalizzando un’iconografia che abbiamo in mente, che può essere sacra l’apparizione di un angelo, di un’aurora boreale, o di un germoglio, tanto quanto lo è la terribile carica di violenza esercitata al Grassi. Stiamo tra queste due tremende oscillazioni, in cui ritornano, in maniera consapevole o inconscia, le domande assolute dell’esistenza, che non trovano risposta nell’ancorarsi della pura materialità» spiega Enia.
Se infatti al Melato - in passato conosciuto come Teatro Fossati, utilizzato a cavallo tra Otto e Novecento come sala per spettacoli, operette e poi come cinema, fino alla chiusura definitiva – i 30 gruppi corali si susseguono ininterrottamente, lasciando che gli spettatori prendano il posto tra gli spalti, a terra, sul palcoscenico e sulle balconate, senza vincoli di tempo, aprendo a una riflessione sul sacro suffragata dalla musica, al Grassi si consuma una violenza inaudita, corporale e drammaturgica.
L’idea nasce da un impulso particolare e il regista lo racconta: «Risale a quando venni per la prima volta al Piccolo, con L’abisso. Ero in scena al Teatro Grassi e venni a sapere che, esattamente tra quelle mura, la Legione Ettore Muti aveva torturato civili e partigiani». La sede di via Rovello, prima di essere presa in affido da Giorgio Strehler e Paolo Grassi, fu infatti caserma generale del comando Muti, corpo militare della Repubblica Sociale Italiana, nonché responsabile della strage di Piazzale Loreto. La riflessione quindi – che elenca tutti gli strumenti di tortura utilizzati in quelle stanze - si sviluppa lungo la via della violenza, che si realizza nel presente ma continua a perpetrarsi nella storia, impregnando le mura di un edificio ma anche la coscienza collettiva di un popolo. Anche perché la violenza, il male, ha un linguaggio universale, non ascrivibile solo a un determinato episodio – in questo caso alla seconda guerra mondiale – ma si continua a realizzare in forme diverse e in circostanze diverse: basti pensare all’Ucraina, alla Libia, al Sudan, a Verona.
Solo il sacro quindi, attraverso la mediazione artistica, ha la possibilità di sconfiggere il male, di creare quella possibilità di catarsi in gradi di revitalizzare spazi e di restituirgli dignità, fede e voce, parlando direttamente alle persone e interagendo con loro, in un rito che risveglia la coscienza comunitaria e ne fa fondamento per una coscienza collettiva.