L’ascesa dell’Islam radicale e la conversione di molti giovani francesi a un Islam rigorista e intollerante, è un fenomeno in crescita esponenziale in molte zone della Francia. La deriva fanatica, per alcuni di questi giovani, si traduce drammaticamente nell’adesione al terrorismo, come si è potuto constatare analizzando il percorso dei membri dei vari commando che hanno messo la République a ferro e fuoco, da Charlie in poi. A questa spirale dantesca, lo Stato ha risposto offrendo ingenti sovvenzioni alle associazioni che si occupano di de-radicalizzazione. Si tratta in genere di piccole strutture gestite da psicologi e sociologi già abituati a trattare giovani sofferenti a causa di crisi identitarie, accessi di violenza, marginalizzazione.
I nuovi fondamentalisti, in genere molto giovani, vengono trattati in queste strutture spesso con le stesse tecniche di de-programmazione con cui vengono assistiti i membri fuoriusciti dalle sette, facendo in modo di liberarli dal giogo di sottomissione imposto dagli imam radicali o peggio, dai reclutatori intenzionati a mandarli sul fronte siriano o a trasformarli in kamikaze sul territorio europeo. Se alcune associazioni agiscono in buona fede, altre hanno intuito nella de-radicalizzazione una possibile fonte di business; le strutture si sono moltiplicate come funghi, talvolta gestite da personaggi dal passato torbido.
Un caso particolare è da qualche tempo finito sotto i riflettori dei media: si tratta della specialista in de-radicalizzazione per eccellenza, Dounia Bouzar, dipinta per lungo tempo dai giornali come un’eroina. Nel 2014, una volta considerata finalmente con lucidità la gravità del fenomeno delle partenze dei foreign fighters, Sarkozy diede alla Bouzar il compito di raccogliere i cocci provando a intervenire sui giovani tentati dall’Islam radicale. Oggi « l’esperta in fondamentalismo » si trova nell’occhio del ciclone. La Bouzar avrebbe ottenuto dai governi in carica dall’inizio della sua attività un totale di 900.000 euro e adesso sono in molti a chiedere conto di dove siano finiti questi soldi.
«I risultati sono tutti da rivedere. Molti parlamentari hanno chiesto di fare valutazioni indipendenti sull’attività di Dounia Bouzar, ma non sono stati finora ascoltati » dice il giornalista di Radio France International David Thompson, uno dei massimi esperti di jihadismo in Francia e nel mondo. «Addirittura, molte persone in terapia dalla Bouzar sono ripartite per la Siria » continua Thomson «i suoi esiti positivi sono pari a zero, ma continua ad occupare lo spazio mediatico ». Secondo Thomson, il motivo è da cercare nell’interpretazione che la Bouzar ha saputo fornire circa la radicalizzazione. «La considera come una patologia. Per lei non si tratta di seguaci di una religione portata agli estremi, ma di malati da curare». Questa teoria del fanatismo come patologia corrisponde a una perfetta strategia di comunicazione da parte delle istituzioni. Esclude ogni responsabilità diretta dei politici riguardo al fenomeno, fa sì che anche le autorità religiose di culto musulmano possano liberarsi facilmente del fardello con la sempiterna frase: «Questo non ha niente a che vedere con l’Islam».
È così una soluzione che accontenta molti, liberati dal peso delle responsabilità. Eppure quanto accade ha a che vedere con l’Islam, eccome. Lo ribadisce anche Véronique R., mamma di Quentin, giovane caduto nelle spire del fondamentalismo e partito per raggiungere lo Stato Islamico in Siria, la terra promessa dove ha trovato la morte a soli 23 anni. «Qualche mese dopo essersi convertito, non faceva altro che recitare versetti del Corano, e interpretarli alla lettera » ricorda Véronique. « I dogmi rassicurano questi ragazzi, lì trovano conferma ai loro dubbi, i dogmi tracciano per loro il cammino da percorrere, li sollevano dalla responsabilità delle scelte. Il nero su bianco è per loro la verità assoluta. » Quindi purtroppo anche questo è Islam, anche se naturalmente infinitamente minoritario rispetto all’interpretazione seguita della gran maggioranza dei musulmani.
«Dire che questo non è Islam, dire che si tratta di una deriva patologica, non serve a niente e a nessuno. È ciò che ha fatto Dounia, accontentando i politici e i religiosi che hanno insistito nell’interpretare la radicalizzazione e le sue derive violente come una specie di malattia mentale». Thomson è lapidario: « La de-radicalizzazione non esiste, non esiste un vero e proprio metodo dai risultati efficaci ». Eppure ci hanno creduto e ci credono in molti. Ci ha creduto fortemente anche Manuel Valls, che aveva promosso la nascita del centro di deradicalizzazione di Pontourny, a Beaumont en Véron. Pontourny è un castello nel cuore della Francia rurale trasformato appena l’anno scorso in centro specializzato per accogliere i giovani tentati dal jihad. L’arresto del suo ultimo ospite per violenze in ambito famigliare è stato l’ennesimo fallimento subito dalla struttura, attualmente senza alcun giovane « in terapia », ma con una ventina di operatori da remunerare e un costo complessivo di due milioni di euro l’anno.
A gennaio è stato arrestato Mustafa Savas, uno degli ospiti del centro. Lo hanno fermato a Strasburgo per associazione criminale legata a fini terroristici. Prima di approdare a Pontourny, Mustafa aveva tentato per due volte di raggiungere la Siria, durante il primo dei due tentativi era accompagnato da Foued Mohammed Aggad, uno degli assassini del Bataclan. I servizi segreti francesi (DGSI) avevano espresso un parere negativo circa la possibilità di reinserzione del ventiquattrenne, ma la direzione del centro aveva voluto accoglierlo ugualmente. D’altra parte, non c’è esattamente la fila per essere ammessi a Pontourny. Aperta nel settembre dello scorso anno, la struttura avrebbe dovuto accogliere a novembre una ventina di giovani in via di radicalizzazione, ma l’obiettivo non è stato mai raggiunto. I ragazzi dovevano presentarsi volontariamente per essere assistiti da psicologi, sociologi e altri esperti che li aiutassero a non percepire più la Francia come una realtà nemica da combattere.
A gennaio, il centro contava appena tre ospiti, e oggi nessuno. Per alcuni dei giovani, sembra addirittura che il bilancio del soggiorno sia stato contrario agli effetti sperati. Alcuni si sarebbero infatti lamentati di una «propaganda anti-Islam» praticata dagli operatori, convincendoli di conseguenza a precipitare ancor più nella spirale del fanatismo. Nel ricco e vario cast di quelli che vorrebbero de-radicalizzare i jihadisti, c’è anche un individuo che di jihadisti se ne intende davvero, nel senso che ne ha formati più o meno 160, spedendoli da Parigi verso il Medio Oriente, per prendere le armi e farsi ammazzare ispirati dalle sue prediche cariche d’odio. Il suo nome è Farid Benyettou, classe 1981, di professione infermiere e teorico del jihad armato nel tempo libero. Farid fu la figura di punta e il leader carismatico della banda delle « Buttes Chaumont », il gruppo islamista a cui appartenevano i fratelli Kouachi, responsabili del massacro a Charlie Hebdo.
Benyattou era la loro guida spirituale, il guru, quello che li aveva convinti a prendere le armi. Con la sua djellaba immacolata, i suoi capelli lunghi, il suo pallore inquietante e i suoi occhiali da serie tv anni Settanta, Farid predicava il disprezzo degli «infedeli» presso la moschea fondamentalista Adda’wa, nel XIXesimo arrondisement di Parigi, poi chiusa nel 2006. Il giovane aveva convinto diversi coetanei del quartiere a partire per l’Iraq e a unirsi alle file di Al Qaeda. Alcuni di loro sono deceduti in Medio Oriente. Accusato di legami col terrorismo internazionale, Benyattou è stato condannato a sei anni di prigione e ne è uscito nel 2009, giusto in tempo per indottrinare di nuovo decine di ragazzi fra cui proprio i fratelli Kouachi, incontrati in carcere. Ironia della sorte, una volta uscito di prigione, Benyattou ha avuto il suo diploma da infermiere facendo praticantato presso l’ospedale Salpetrière, là dove sono stati ricoverati gran parte dei feriti gravi del 13 novembre. Ora, Farid « il pentito » ha anche scritto un libro in cui parla di de-radicalizzazione.
Data d’uscita del volume: 7 gennaio 2017, esattamente nel secondo anniversario della strage che lui stesso ha ispirato. Una scelta tattica che ha fatto gridare allo scandalo una buona parte dell’opinione pubblica francese. A spingerlo a comporre la sua prima opera letteraria e a promuovere quest’ultima sui media è stato qualcuno che già conosciamo: Dounia Bouzar. Ora sappiamo almeno dove é finita una piccola parte di quei famosi 900.000 euro versati nelle sue tasche dal governo.