I Dieci Comandamenti,
forse tra i temi di fede
più affascinanti
e maggiormente
rappresentati
nel mondo dell’arte
e della letteratura
contemporanea,
interrogano registi,
scrittori e cantanti
stimolandoli a realizzare
opere di qualità
e di notevole valore
riflessivo. È il caso
dell’esperienza
cinematografica,
qui attraversata
da uno spaccato storico
rappresentativo.
I Dieci Comandamenti sono un argomento di grande
fascino rappresentativo, soprattutto per il cinema.
Ci sono film che hanno affrontato l’intero decalogo
in una volta sola e pellicole che hanno tratto spunto
dall’uno o dall’altro comandamento per proporre trattazioni
monotematiche o per ricavarne pretesti narrativi
per racconti di segno diverso. Uno spazio di interesse è
stato trovato anche nella musica. Molti citano Il testamento
di Tito, canzone di Fabrizio De Andrè, che ripercorre i
comandamenti dal punto di vista di uno dei due ladroni
crocifissi con Gesù. Meno noto ma più articolato è ilmusical
di produzione francese intitolato I dieci comandamenti
e anche il mondo letterario non ha mancato qualche
incursione – più o meno fedele – sull’argomento.
In questa sede restringiamo il campo al mondo del cinema;
innanzitutto perché proprio il grande schermo
ha riservato al Decalogo le attenzioni maggiori; in seconda
istanza, per non cadere in una ricognizione di
raggio troppo vasto, che rischierebbe di essere superficiale
e di scarsa utilità.
Il cinema si è occupato del Decalogo già dalla metà
degli anni Quaranta. Si intitola I dieci comandamenti un
film in bianco e nero del 1944 di Giorgio Walter Chili
(soggetto: padre V. Callisto Vanzin; sceneggiatura:
G.W.Chili, Diego Fabbri, Pietro Germi, Enrico Ribulsi,
padre V. Callisto Vanzin). I dieci episodi riprendono il
dettato delle dieci regole sacre, affidando le rispettive
interpretazioni agli attori più in voga del momento:
“Non desiderare la roba d’altri” (Marina Berti, Carlo
Campanini, Delia Branci); “Non desiderare la donna
d’altri” (Amedeo Nazzari, Fermana Paolieri); “Non dire
falsa testimonianza” (Elisa Cegani, Claudio Gora);
“Non rubare” (Assia Noris, Otello Toso, Carlo Romano);
“Non commettere atti impuri” (Rossano Brazzi,
Loretta Lisi); “Non ammazzare” (Roldano Lupi, Delia
Ornan, Nino Pavese, Aldo Silvani); “Onora il padre e la
madre” (Vera Carmi, Ada Dondini, Ugo Sasso, Cesco
Baseggio, Luigi Pavese, Bella Starace Sainati); “Ricorda
ti di santificare le feste”
(Massimo Girotti, Mariella
Lotti); “Non nominare
il nome di Dio Invano”
(Valentina Cortese, Andrea
Checchi, Adele Garavaglia);
“Io sono il Signore
Dio tuo” (Carlo Ninchi,
Bianca Manenti). Al
termine di ogni episodio
segue un insegnamento
moralistico sul comandamento
narrato.
Girato a Roma in modo
molto fortunoso durante
l’occupazione dei tedeschi,
il film fu messo in programmazione
con evidente
ritardo. Come per altre
pellicole, l’idea di questa
realizzazione venne anche
– ma forse soprattutto –
per evitare di dover obbedire
all’ordine di aggregarsi
alla Repubblica di Salò.
Un altro motivo era legato
al fatto che i tedeschi non
esercitavano controlli pressanti
sulle troupe che realizzavano
film dal contenuto
religioso. Il film, iniziato
nella primavera del
1944, terminò nel 1945 e
venne affidato a una distribuzione
regionale.
La critica del tempo ne
parlò in questi termini:
«Film a episodi carico di
moralismo drammatico
[…]. Il regista piglia molto
sul serio il contenuto
dei vari motivi […]. Inquadrature
leziose, piene
di buone intenzioni, sproporzionate
al livello della
cronaca degli atti unici»
(Fabrizio Sarazani, Il Tempo,
agosto 1945). Così si
espresse Ennio Flaiano:
«Il clero ha trovato una
via di mezzo tra il mondo
e il cielo; esso parla del
cielo con una moderazione
odiosa. Ma il cielo è al
di là di ogni misura; è tutto
ciò che è forsennato, è
violenza; ed è detto che
cederà alla violenza degli
uomini. Il clero cerca di
accomodarlo al gusto del
“mondo”, così ha scritto
Julien Green nel suo libello
contro i cattolici francesi,
e non vediamo altro
giudizio più favorevole
per il film su I dieci comandamenti
che il giovane regista
C.W. Chili ha diretto.
Tutto, in questo film, è
accomodato al gusto del
mondo, anzi al gusto e alle
pretese di una determinata
società, l’italiana, la
quale esce alla fine benissimo
rappresentata».
Nonostante siano passati
diversi lustri dalla sua distribuzione
nelle sale, resta
nella storia del cinema
e nella memoria collettiva
I dieci comandamenti di Cecil
B. De Mille (Usa). Il
quale ne propose ben due
versioni, la prima nel 1923
e la seconda nel 1956.
La pellicola muta del
1923 si divide in due parti:
la prima (prologo biblico)
racconta la liberazione
del popolo giudeo, la
salita di Mosè al Sinai per
ricevere le Tavole della
Legge, l’adorazione del vitello
d’oro, la discesa di
Mosè. La seconda parte
(episodio moderno) si segnala
per la grandiosità
spettacolare, per la forza
narrativa e per le insolite
invenzioni tecnico-registiche
come, per esempio,
le immagini subacquee
degli egiziani che annegano
nel Mar Rosso.
Il rifacimento del 1956
a opera del medesimo regista
narra la storia di Mosè,
il bambino ebreo salvato
dalla madre a seguito
di un massacro voluto dal
faraone, che, adottato dalla
figlia di quest’ultimo,
diventa principe d’Egitto
e, dopo aver scoperto le
sue vere origini, decide di
abbandonare la sua vita di
lussi e agi. In seguito, dopo
aver affrontato il faraone
Ramesse II, suo acerrimo
nemico sin dalla gioventù,
libera il suo popolo
dalla schiavitù. La trama
della pellicola è desunta,
oltre che dal libro
dell’Esodo, anche dal Midrash,
dal Corano e dai testi
di Giuseppe Flavio.
Non dissimile è la trama
dell’omonimo film di
Charles Davis (Usa, 1982),
che racconta il periglioso
e doloroso cammino percorso
da Mosè e dal suo
popolo per giungere alla
Terra Promessa. Dopo la
fuga dagli egiziani e il passaggio
del Mar Rosso, la
lunga carovana si accampa
sulle pendici del Sinai.
Mosè si separa dalla sua
gente per scalare la montagna
e aspettare la parola
di Dio, che gli consegnerà
le Tavole della Legge.
Quando fa ritorno, il patriarca
scopre che gli ebrei
si sono dati al peccato.
Ci sono i Dieci Comandamenti
e molto altro nel
noto Decalogo di Krzysztof
Kieslowski, un ciclo di mediometraggi
di circa 55
minuti ciascuno, girati fra
il 1987 e il 1989. Ogni capitolo
racconta una storia
di vita quotidiana indipendente
da quelle degli altri
episodi e ispirata, più o
meno esplicitamente, a
uno dei dieci comandamenti
biblici. La sceneggiatura
è curata dallo stesso
Kieslowski insieme a Krzysztof
Piesiewicz.
Decalogo 1. Krzysztof
è un professore
universitario separato,
che cresce da solo suo figlio
Pawel e, da appassionato
di informatica, crede
che tutta la vita si possa
descrivere matematicamente.
Ritiene che Dio
non esista e rifiuta qualunque
dimensione trascendente
della realtà. Un
giorno il bambino desidera
andare a pattinare sul
lago ghiacciato vicino a casa
e il padre esegue una serie
di calcoli al computer
secondo i quali il ghiaccio
reggerà il suo peso, ma il
ghiaccio si rompe e il tragico
epilogo è inevitabile.
Decalogo 2. Dorota,
il cui marito Andrej è in
ospedale in pericolo di vita,
è al terzo mese di gravidanza.
Il padre del bambino
è il suo amante, lei fa
dipendere dal futuro del
marito la sua decisione: se
Andrej è destinato a morire
terrà il bambino, altrimenti
abortirà e interromperà
la storia d’amore con
l’amante. La responsabilità
di questa scelta viene dirottata
sul primario, ma la
vicenda terminerà con un
lieto fine inaspettato.
Decalogo 3. Per riuscire
nel suo intento di
strappare l’ex fidanzato
Janusz alla sua famiglia
durante la notte di Natale,
Ewa sceglie la strada
della menzogna e inventa
che suo marito è improvvisamente
scomparso (in
realtà vive sola da circa tre
anni). Janusz giustifica la
sua frettolosa uscita da casa
la sera della vigilia raccontando
alla moglie che
qualcuno ha rubato il suo
taxi, alla cui guida si è
messa invece Ewa. La vicenda
si dipana in un vano
girovagare tra ospedali,
guardie mediche e stazioni,
finché l’uomo torna
a casa sua.
Decalogo 4. La giovane
Anka e il maturo Michail
sono i protagonisti:
lui l’ha cresciuta come un
vero padre dopo la morte
della madre ma fra i due
si è insidiato il fantasma
di un amore diverso, in seguito
al ritrovamento da
parte della ragazza di una
lettera indirizzata a lei, in
cui la madre le rivelava
che l’uomo non è il suo
genitore. Anka non la
apre ma ne inventa – o ne
intuisce – il contenuto, comunicandolo
all’uomo. I
silenzi, gli indugi, gli inganni
di una vita vengono
alla ribalta e fra i personaggi
scatta un dialogoconfessione
di intensa
portata emotiva.
Decalogo 5. Jacek è
un poco di buono, privo
di senso morale; Piotr è
un avvocato dai sani principi,
che crede nella giustizia
ma non nella pena capitale.
Jacek uccide un taxista,
viene arrestato e tocca
proprio a Piotr difenderlo
in tribunale. Jacek
viene condannato a morte
e prima dell’esecuzione
chiede all’avvocato di parlare
con la madre e di farsi
seppellire nella tomba di
famiglia. Le parole sono
pugnalate nel cuore di Piotr,
convinto che la pena capitale
sia una barbarie;
sembra non esserci alcuna
differenza fra l’omicidio
commesso da Jacek e quello
commesso dallo Stato.
Decalogo 6. Tomek
è un impiegato delle poste
che s’invaghisce di Magda,
una donna matura
che abita nel condominio
di fronte. Inizia a spiarla
ogni sera con il suo telescopio
e un giorno decide
di confessarsi con lei, che
inizialmente reagisce male
ma alla lunga non sembra
troppo disturbata e
una sera invita a cena il
giovane. Per convincerlo
che l’amore non esiste, lo
seduce e lui, giunto a casa,
si taglia le vene. Da lì si
ribaltano i ruoli: lui è disilluso
ma lei, innamorata,
cerca a tutti i costi di rivederlo.
Dopo qualche tempo
si incontrano e scoprono
di essere due persone
molto diverse da prima.
Decalogo 7. Majka è
una giovane ragazza maltrattata
dalla madre e con
un padre assente, ma ha
un buon rapporto con la
sorellina Ania. Un giorno
la rapisce da una recita
scolastica e, una volta al sicuro,
le rivela di essere la
sua madre naturale. Le
due si nascondono nella
casa dell’ex amante di
Majka, padre della bambina.
Ma le cose non vanno
come crede Majka, che
scappa ancora portando
con sé sua figlia. Ewa le trova
in una stazione proprio
nel momento in cui arriva
il treno, riprende Ania e
Majka se ne va da sola.
Decalogo 8. Durante
una lezione universitaria,
la professoressa Zofia accetta
che partecipi Elzbieta,
una giornalista che racconta
un fatto avvenuto a
Varsavia nel 1943: due giovani
cattolici, marito e moglie,
si offrono di far da padrini
di Battesimo a una
bambina ebrea di sei anni,
ma all’ultimo momento
si rifiutano, dicendo di
non poter mentire di fronte
a Dio. Elzbieta era la
bambina a cui anni prima
la professoressa aveva negato
aiuto. Zofia rivela a
Elzbieta che la storia della
“falsa testimonianza” era
solo una scusa per eludere
la Gestapo, ma Elzbieta
non le porta rancore.
Decalogo 9. Roman
è un cardiochirurgo che si
scopre impotente. La notizia
lo sconvolge, ma la moglie
Hanka lo rassicura
che questo non cambierà
nulla nel loro rapporto.
Lui, però, scopre che lei
ha un amante. Quando
Hanka si rende conto che
la situazione è insostenibile,
tronca la relazione
clandestina ma si accorge
che il marito li stava spiando.
L’esperienza riunisce
i due, decisi a ricostruire il
loro rapporto. Roman insiste
perché lei vada a sciare,
ma l’ex amante non demorde
e raggiunge la donna
sulla neve a sua insaputa.
Quando Roman lo scopre,
tenta il suicidio prima
che Hanka riesca a
mettersi in contatto con
lui per fargli sapere che
era all’oscuro di tutto.
Decalogo 10. I fratelli
Artur e Jerzy sono molto
diversi: il primo è serio, posato
e padre di famiglia, il
secondo è ribelle e scapestrato.
Al funerale del padre,
i due scoprono nella
sua casa una collezione di
francobolli che vale centinaia
di milioni e cominciano
ad appassionarsi alla filatelia.
Alla collezione manca
solo un francobollo rarissimo,
in possesso di un
losco filatelico che propone
ai fratelli uno scambio:
il francobollo in cambio di
un rene di Jerzy, da donare
alla figlia. Jerzy accetta,
ma durante l’operazione i
ladri entrano in casa e rubano
tutti i francobolli del
padre. I due fratelli incontrano
i veri esecutori del
crimine – il filatelico e un
complice – ma non hanno
le prove della loro colpevolezza.
Intanto si riconciliano
e condividono la passione
filatelica paterna.
Kieslowski propone un
confronto fra la Parola di
Dio e quella dell’uomo
contemporaneo, attraverso
il caso – unico nella storia
del cinema – di un film
in dieci episodi o capitoli,
che si misura con il peccato
per verificare se il venir
meno dell’uomo al patto
con Dio abbia ancora senso
dopo Auschwitz e Hiroshima.
La struttura dei dieci
capitoli è basata sul serrato
raffronto fra la tesi, il
comandamento in questione,
e l’antitesi, il mancato
rispetto del comandamento;
allo spettatore è lasciato
il compito di trarre
le sue conclusioni affidandole
al giudizio della ragione
e della coscienza.
Ciascun episodio ricorda
la fragilità umana e restituisce
il valore delle
“Dieci parole sapienti”, osservando
le quali la persona
può inoltrarsi nel mondo
senza correre pericoli.
Senza questo codice di vita,
sembra dire il regista
polacco, si cade inesorabilmente
nel relativismo, nel
nichilismo e nell’idolatria
dei molti vitelli d’oro che
assediano l’esistenza.