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lunedì 05 giugno 2023
 
NUOVE NORME
 

Decreto migranti, che cosa è, perché fa discutere

12/03/2023  Il suo obiettivo è contrastare l'immigrazione e favorire l'immigrazione regolare. Riuscirà nell'intento? Ecco il parere degli addetti ai lavori

Dal 10 marzo è in Gazzetta ufficiale il cosiddetto Decreto migranti approvato nel Consiglio dei Ministri tenuto a Cutro il 9 marzo dove nei giorni scorsi è avvenuta la drammatica strage di migranti sulle coste calabresi di cui ancora sale il conto delle vittime. Obiettivo dichiarato del decreto contrastare, a cominciare dalle partenze, l’immigrazione clandestina, e relativi portati, comprese le morti in mare, a vantaggio di quella regolare anche per andare incontro alle richieste del sistema produttivo in cerca di manodopera che sul territorio non trova. Come prevedibile il Decreto trova le critiche di chi politicamente la pensa diversamente, ma questo è per così dire fisiologico.

Ma siccome, come sovente accade, il passaggio dalle intenzioni alla scrittura delle norme non è semplice come sembra, anche tra gli addetti ai lavori – avvocati, magistrati, costituzionalisti - , che si devono studiare le norme per applicarle nelle aule di giustizia e si devono confrontare con le ricadute che quanto scritto su carta ha sulla realtà dei fatti, si segnalano criticità nel Decreto in sé e nei suoi punti di incontro con il cosiddetto decreto flussi, approvato da poche settimane, e con la, già molto criticata, legge Bossi-Fini del 2002 per la quale lo stesso Gianfranco Fini, uno dei promotori, ha segnalato problemi di inadeguatezza a una situazione nel frattempo molto cambiata.

Il punto che più desta preoccupazione, non a caso sarebbe uno dei profili per i quali il Quirinale avrebbe auspicato una riflessione in fase di conversione in legge del decreto (entro 60 giorni), è quello che riguarda la restrizione e in ottica di revoca della cosiddetta «protezione speciale», ossia l’istituto che dal 2020, dopo l’eliminazione della protezione umanitaria, ha consentito di concedere un permesso temporaneo a persone che, pur non uscendo da situazioni di guerra, andavano difese dall’espulsione o dal respingimento verso un Paese ostile, in cui possono essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali). Al momento secondo i calcoli a beneficiarne in Italia sarebbero 10.000 persone circa, inserite nel tessuto sociale perché titolari di contratti lavoro, che magari nel frattempo hanno ottenuto ricongiungimento familiare, e che il decreto potrebbe riportare in condizioni di clandestinità, facendo regredire l’integrazione in corso: « La conseguenza immediata», paventa l’esecutivo di Magistratura democratica che ha mosso al Decreto una serie di puntuali rilievi tecnici, «potrà essere quella di produrre un esercito di irregolari che non potranno essere allontanati, in mancanza di accordi per il rimpatrio con la maggioranza dei Paesi dai quali provengono, e che andranno ad alimentare il mercato del lavoro nero e dello sfruttamento o della criminalità, su cui lucrano potentati economici sempre più invadenti, interessati ad abbattere i costi della manodopera (ad esempio nel settore agroalimentare o in quello della logistica)». Esattamente quello che il decreto promette di contrastare.

Il tema del “rimpatrio” veloce che pure il decreto promette, ha d’altro canto una sua complessità intrinseca perché, in molte condizioni, secondo gli esperti confligge con la fattibilità: «Per rendere efficaci le espulsioni», spiegava nei giorni scorsi al Dubbio, giornale dell’avvocatura, Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato esperto di diritto d’asilo, «bisogna ottenere la collaborazione dei Paesi d'origine, non di quelli di transito. Per essere chiari: la Libia non accetterebbe mai di farsi carico di un sudanese o di un nigeriano espulso dall'Italia. È un problema ben noto in tutti i Paesi europei».

Intanto nella conferenza stampa di presentazione del Decreto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha promesso di «andare a cercare gli scafisti in tutto il globo terracqueo», un lodevole proposito quello del contrasto alla tratta di esseri umani che però, al netto dell’espressione figurata, gli addetti ai lavori fanno notare si scontra con la territorialità del diritto penale: se è vero infatti che trattandosi di un grave reato che ha effetti sull’Italia può essere punito anche in Italia, quando commesso in acque internazionali richiede accertamenti non semplici, per esempio - fanno notare alcuni costituzionalisti - la prova che la barca affondata in mare aperto fosse diretta in Italia.

L’altro tema che viene messo in rilievo è la previsione di una nuova fattispecie e dell’inasprimento delle pene per i cosiddetti “scafisti”, con pena edittale innalzata nel minimo a 20 anni e nel massimo a 30 se al trasporto consegue la morte di più persone: il problema è intendersi su chi siano gli scafisti. La nuova norma colpisce chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato”. Il testo fa discutere i tecnici del diritto per la sua genericità: «La previsione penale – scrive Md- è strutturata con una formula così ampia e indeterminata da porre seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbero estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari». Non solo: «L’esperienza dei processi penali celebrati contro i cosiddetti scafisti ci insegna che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: un povero tra i poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani».

Smantellare la rete dei trafficanti infatti, come spiegava anche l’avvocato Vassallo, ha una complessità difficile da arginare: «Presupporrebbe accordi con i Paesi dai quali questi trafficanti provengono e in cui vivono tranquillamente: un conto è fare accordi con alcuni governi per bloccare le partenze, un altro stringere alleanze per contrastare organizzazioni criminali che in alcuni Paesi operano indisturbate», e non è certo semplice, sempre per via della territorialità del diritto penale, esercitare giurisdizione italiana in Paesi «che non riconoscono nemmeno l'estradizione verso l'Italia, come nel caso di Egitto e Sudan». Si pensi, per esempio, alla fatica che fanno le indagini sul caso Regeni a trovare la collaborazione delle istituzioni egiziane.

Il Decreto estende a tre anni la durata del permesso di soggiorno in rinnovo per migranti regolari e prevede una programmazione triennale per chi entra con flussi legali (vedi cosiddetto decreto flussi), andando in questo senso incontro al bisogno di manodopera richiesto dagli imprenditori italiani in alcuni settori, ma non è chiaro se oltre alla durata del permesso sia previsto un incremento dei numeri in relazione al fabbisogno, perché questo aspetto è rimandato al Dpcm che dovrà stabilire le quote. Su questo punto, le difficoltà sorgono altrove, nella frizione con la Bossi-Fini che prevede che possano entrare solo persone che hanno già una proposta di lavoro, ma questo va in urto con la difficoltà delle aziende di scegliere alla cieca lavoratori sconosciuti - e a volte di riconoscerne la formazione professionale in patria che secondo il decreto andrebbe privilegiata -, senza poterli provare prima, tanto che in genere se possono le imprese scelgono di non ricorrere a questa possibilità.

 
 
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