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venerdì 31 marzo 2023
 
L'analisi
 

Del Zanna: la Turchia rischia di implodere

16/07/2016  L'analisi dello studioso di storia turca: il Paese non è più lo stesso dopo il golpe. Erdogan non può più sottovalutare i segnali che giungono dal cuore del Paese. I problemi sono molteplici: la crisi, la guerra contro i curdi, le ambiguità verso il terrorismo, gli attentati, la Siria, la repressione della stampa e delle minoranze.

Giorgio Del Zanna
Giorgio Del Zanna

«Dal fallito golpe si possono trarre due considerazioni: da un lato cresce il malessere verso Erdogan, indebolito dalla svolta autoritaria; dall’altro manca un’opposizione capace di proporre una reale alternativa al capo dell’Akp. Neppure l’esercito». È l’opinione di Giorgio Del Zanna, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università Cattolica di Milano, studioso dell’Impero ottomano ed esperto di Turchia.
Perché i militari hanno un ruolo così importante nella storia turca?
"L’esercito è l’entità che ha creato la Turchia nel 1923, il cui impianto politico, costituito da blocchi di potere e della società (dal rapporto con la religione all’idea di nazione e di identità culturale) è stato disegnato dal padre della patria e primo presidente Mustafa Kemal Ataturk, un militare appunto. Non a caso si parla di kemalismo. Da allora, storicamente, l’esercito ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel Paese, in qualità di garante della Costituzione. Per questo è spesso intervenuto con putsch, quando c’era instabilità politica. Il colpo di Stato più importante è del 1980, in una fase di precarietà politica ed economica per gli scontri tra frange di estrema destra ed estrema sinistra; la Costituzione attualmente in vigore è del 1982, scritta a seguito del golpe. Proprio quell’intervento è alla base del nuovo protagonismo politico islamico in Turchia: con lo scopo di moralizzare la vita pubblica contro la corruzione, i militari aprirono a quelle stesse correnti islamiche da cui poi nacque l’Akp (Giustizia e Sviluppo) nel 2001. Proprio il partito di Erdogan, che è il primo gruppo in Parlamento dal 2002, è stato il fautore del forte ridimensionamento del peso dell’esercito, un punto fondante del programma politico dell’Akp. Nel 2007, la leadership del Chp (il Partito popolare repubblicano, erede di Ataturk), all’epoca la principale forza di opposizione, provò a invocare apertamente un intervento dei militari per «deporre il governo islamista». Il golpe di ieri sera, fallito in poche ore, ci dice che il progetto politico di questi anni di Erdogan è riuscito: l’esercito conta meno rispetto all’ultimo secolo di storia turca. Inoltre non costituisce un blocco di potere unico come in passato; lo si è visto ieri sera, quando importanti settori e ufficiali si sono da subito schierati con i lealisti e non con i golpisti. Tuttavia, Erdogan non può affatto sottovalutare il segnale".  
In che senso?
"Ieri è andata in scena la più forte manifestazione degli ultimi anni del malessere contro la svolta autoritaria di Erdogan. Quasi a dire che per settori importanti della società turca la pazienza è finita, troppe sono le tensioni accumulatesi in questi ultimi due anni, interne ed esterne. La crisi economica, la sanguinosa guerra contro i curdi nel Sud-est, che continua a causare morti anche tra i soldati, l’isolamento internazionale, l’aver sbagliato mosse in Siria arrivando ad appoggiare gli estremisti islamici, i continui attentati terroristici, la repressione interna contro la stampa, contro l’opposizione laica (in parte erede del kemalismo) e contro quella islamica di Hizmet, il movimento di Fethullah Gülen,cui Erdogan imputa il fallito golpe. L’accentramento di potere su di sé non può bastare a Erdogan per risolvere la situazione".  
Quale altre segnale arriva dal golpe?
"Che nonostante la crisi dell’Akp e i non pochi rivali di Erdogan, non emerge un’alternativa concreta. Le opposizioni esistono, ma sono divise e non hanno forza politica; nessun contropotere è in grado di prendere il potere. Neppure l’esercito, e questa è indubbiamente una novità nella storia turca. Il golpe di ieri sera, ancora una volta, si è risolto con l’accentramento di potere sull’uomo della Provvidenza, ma questa soluzione è ingenua: il rischio è un sistema bloccato, che non produce alternative e che rischia l’implosione. La Turchia, al contrario, è un paese con una società civile articolata e viva; se anche stanotte si è visto che i ceti popolari continuano ad appoggiare Erdogan, la borghesia urbana e settori dell’establishment mandano sempre più segnali di malessere".  
E ora?
"Erdogan deve scegliere. Può accentuare la repressione, con un rischio di violenza sempre maggiore, oppure riconoscere la necessità di un cambio di linea politica, non più nella direzione dello scontro con le diverse opposizioni. Deve tenere conto che ha il controllo politico ma che ieri sera ha subito un duro colpo: l’emblema è il presidente costretto all’appello decisivo con Facetime, ovvero uno di quei canali di comunicazione via Web che ha sempre disprezzato".      

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