Il futuro è scomparso. dissolto, svanito. E, con esso, l’ansia di cambiamento, il dinamismo di progettare qualcosa. Persino il conflitto sociale che ha sempre animato la dialettica, lo scontro talvolta, tra la generazione dei padri e quella dei figli. «L'uomo», ha scritto Benedetto XVI, «vive finché vive la speranza, la sua statura si definisce da cosa attende». Nell’eterno presente sperare è un lusso inutile.
«È finita la fiducia nella possibilità di cambiare», afferma il sociologo Ilvo Diamanti, docente di Scienza Politica all'Università degli studi di Urbino "Carlo Bo" e direttore del Laboratorio di Studi Politici e Sociali (LaPolis) che su questo tema interviene sabato 31 agosto al Festival della Mente di Sarzana (www.festivaldellamente.it).
La generazione dei giovani di oggi non attende più nulla, professore?
«È cambiato totalmente il modo con cui le società si rapportano al futuro e il rapporto tra le generazioni ne è un segno, un esempio. In fondo,sia le rivoluzioni che il riformismo erano modi di sottolineare come fosse possibile cambiare il futuro. Appunto, cambiare. L’idea di futuro è sempre legata all’idea di un cambiamento prodotto dagli uomini. Da questo punto di vista il rapporto tra generazioni è emblematico. Quanto più immaginiamo che i destini del futuro siano in qualche misura pre-vedibili e migliorabili tanto più immaginiamo che il passaggio tra generazioni segni sempre un cambiamento in meglio. Finora abbiamo sempre immaginato e sperato che il futuro dei figli sarebbe stato migliore del presente dei genitori e del passato dei nonni. Oggi non è più così».
Perché?
«Lo scarso interesse dei giovani per il futuro è legato al fatto che è venuto meno questo percorso. Oggi in Italia 2 persone su 3 si dicono convinte che il futuro dei giovani sarà peggiore di quello dei loro genitori e che ai giovani convenga andarsene dall’Italia se vogliono fare carriera e trovare soddisfazione nelle loro aspirazioni. Le difficoltà di immaginare il proprio futuro da parte dei giovani è in un certo senso il riflesso della difficoltà per i loro di genitori di prepararlo. Se noi non siamo in grado di predisporre un futuro per i nostri figli, è difficile per loro anche solo immaginarlo. Oggi i giovani sono divenuti specialisti dell’incertezza e dell’insicurezza che non hanno creato loro».
Se manca la fiducia nella possibilità di cambiare si finisce anche progettare. O no?
«Certo. D’altra parte, chi è che dovrebbe progettare? È finito il mito della possibilità di cambiare in modo pre-definito, cioè definendo prima i fini della società».
La globalizzazione ha influito in questi processi?
«Sì, senza dubbio. In tempi di globalizzazione progettare il futuro è molto più difficile perché tutto ci sfugge. Le variabili che condizionano la nostra vita si sono moltiplicate nel momento in cui il nostro spazio si è, nello stesso tempo, dilatato e ridotto. Non esiste più il lontano, è tutto qui. E un fatto che accade a migliaia di chilometri a distanza da noi ha conseguenze dirette sulla nostra vita. Oggi i giovani si distinguono dalle generazioni precedenti per l’importanza che hanno nella loro vita le nuove tecnologie della comunicazione. Internet, e in particolare i social network come Facebook e Twitter, li spinge a interagire ma non a cooperare. Non che i social non permettano di operare ma vengono utilizzati prevalentemente per comunicare e restare in contatto piuttosto che per progettare qualcosa. Perché accade questo? L’antropologo francese Marc Augé ha osservato che il problema odierno è che il peso assunto dai mezzi nella nostra vita ha sovrastato di gran lunga i fini. Il comunicare, che è un mezzo, è diventato un fine in sé, lo ha sovrastato. Questo ha annichilito il futuro e dilatato il presente. Già negli anni ’80 il sociologo Alberto Melucci aveva definito la differenza tra i vecchi e i nuovi movimenti sociali sotto questo profilo: i vecchi movimenti avevano come obiettivo cambiare o costruire il futuro, i nuovi quello di inventare il presente. Oggi i nuovi movimenti sono i mezzi di comunicazione che tutti utilizzano per comunicare la propria esistenza e stare in contatto con gli altri. Siamo in un processo di reinvenzione del futuro che viene trasformato in un presente infinito».
Il mito dell’eterna giovinezza inseguito da molti quanto ha contribuito alla scomparsa del futuro e alla rottura del patto tra generazioni?
«Diciamo che è allo stesso tempo un effetto e una causa. Se i giovani oggi hanno meno peso di un tempo è perché pesano meno anche dal punto di vista demografico. Da più di dieci anni gli ultrasessantacinquenni superano di gran lunga coloro che ne hanno meno di 15. Noi abbiamo assistito ad un processo di dilatazione della giovinezza perché sono venuti meno alcuni riti, momenti che definivano il passaggio generazionale: la fine degli studi, il lavoro, il matrimonio, il primo figlio. Oggi è tutto dilatato. L’ingresso nel mondo del lavoro avviene con sempre maggiore ritardo, c’è un’ampia fetta che non lavora né studia, il tasso di fertilità in Italia tra i giovani e dell’1,4 per cento, il primo figlio arriva sempre più in ritardo. L’uscita dalla casa dei genitori è rimandata. Così, abbiamo una giovinezza che si è dilatata e allungata quasi per conseguenza di processi economici e sociali progressivi. Allo stesso tempo, questo ed altri elementi hanno fatto sì che ci si abituasse a sentirsi giovani. E questo significa non avere futuro, essere instabili, insicuri, non aver chiuso i conti con la propria biografia. Tutti inseguono il mito dell’eterna giovinezza attraverso stili di vita che spingono le persone a rifiutare l’idea di invecchiare. Ormai ci si dice giovani più o meno sempre. Ma soprattutto i vecchi non esistono più. Uno oggi diventa vecchio quando muore».
Cosa succederà in futuro? I giovani torneranno, magari attraverso mobilitazioni, a progettare il futuro?
«Chi fa il mio mestiere, se è serio, al massimo prevede il passato. E già fare questo è difficilissimo».