Dal nostro inviato sulla Life Support di Emergency
«Torno sempre su questa nave perché qui sento che mi posso prendere cura delle persone veramente a 360 gradi», mi dice sul ponte della “Life Support” la dottoressa Paola Tagliabue. Originaria di Monza, 53 anni, specialista di Anestesia e di rianimazione presso il Policlinico di Milano, Paola è alla sua quinta missione sulla “Life Support”, la nave di ricerca e soccorso di Emergency.
«Collaboro con Emergency dai tempi dell’università», racconta, «e nel 2015 sono stata tre mesi in Sierra Leone nel centro realizzato dall’associazione per trattare i malati colpiti dal virus Ebola. In seguito ho partecipato a due missioni della nave Open Arms come medico di Emergency. Quando la Ong ha allestito la sua nave per le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo ho collaborato per allestire la parte medica e l’ambulatorio, quindi nel dicembre del 2022 ho partecipato alla prima missione della "Life Support" partita da Genova».
Nelle quattro missioni alle quali Paola Tagliabue è stata presente, solo in un paio di casi si è reso necessario evacuare due persone dalla nave con l’elicottero. «In genere le principali patologie sulle quali interveniamo sono le ustioni, l’ipotermia in inverno e la disidratazione in estate, traumi provocati dalla navigazione e malattie croniche. Abbiamo assistito donne incinte, ma non ci sono mai stati parti a bordo. A volte ho dovuto medicare ferite conseguenze delle torture subite in carcere o nei centri di detenzione».
Quando un medico si trova di fronte a una persona vittima di torture si rende conto che il suo ruolo va oltre l’aspetto sanitario. Paola Tagliabue lo ripete: «Su questa nave ci prendiamo cura delle persone. Sono tutte persone fragili, vulnerabili, che hanno alle loro spalle viaggi lunghi e difficili, traversate del deserto, periodi di permanenza in centri di accoglienza dalle condizioni difficili. Noi qui sulla "Life Support" siamo i primi che si prendono cura di loro dopo mesi di soprusi e di sacrifici per la ricerca di una vita migliore».
Il primo contatto con i naufraghi portati a bordo avviene con lo sguardo. «Il momento in cui incroci i loro occhi è sempre emozionante e difficile da spiegare a parole. I loro sono gli occhi di persone che che in quell’istante capiscono che forse che l’hanno fatta».
A volte i migranti raccontano le loro storie, in sogni e le speranze, a volte restano silenziosi. «Per noi», aggiunge Paola, «è importante rispettare i silenzi di coloro che non vogliono raccontare». Dopo tre o quattro giorni di navigazione arriva il momento dello sbarco in un porto sicuro. «Lo vivo sempre come un momento triste», confida la dottoressa di Emergency, «perché dopo averli accuditi arriva il momento di lasciarli. E per loro comincia una nuova avventura».
(Nella foto, Paola Tagliabue, 53 anni)