"E se un giorno fosse l'Africa a nutrire l'Occidente?". Scoppia in una gentile e irresistibile risata uno dei contadini intervistati per la presentazione del progetto di Slow Food for Africa "10mila orti per coltivare il futuro". Una provocazione? Una possibilità? Un'utopia? Forse un mix di tutti e tre questi ingredienti per i quali, però, va scelta e applicata una ricetta finalmente vincente, che parta dal basso, dalle famiglie, dalle piccole comunità, là dove si decidono veramente i destini del Continente africano. Carlo Petrini, presidente di Slow Food, parla con passione del progetto degli orti in Africa, di un sistema che rimetta al centro gli individui, che protegga e valorizzi la biodiversità e sia, soprattutto, sostenibile. L'incontro organizzato presso l'Auditorium del Centro San Fedele, nel cuore di Milano, è stata una straordinaria occasione per ascoltare dalla loro viva voce, le esperienze di uomini e donne, per lo più molto giovani, che vedono nella tutela e nella promozione di un sistema produttivo "locale" l'unica strada possibile per consentire ai Paesi africani, anche quelli più poveri, di vivere dignitosamente, sconfiggendo quel nemico terrificante che ancora uccide milioni di persone, cioè la fame.
Comunicazione, condivisione, partecipazione. E ancora, sostenibilità, sussistenza, diversificazione. Sono le parole chiave che vengono ripetute in chiave diversa, ma come fossero un mantra, da John, Mariam, Edward, Bineta ed Eunice: sono i testimoni di quello che Slow Food sta facendo in Africa, loro che hanno visto i primi mille orti partire nella diffidenza totale, loro che erano abituati alle monocolture che hanno messo in ginocchio interi Paesi, loro che hanno visto parenti e amici vendere la loro unica ricchezza, la terra, a cifre irrisorie per dar qualcosa da mangiare ai loro figli.
"Se dimenticherete che i frutti sono di tutti e la terra di nessuno, sarete perduti!", diceva Rousseau, e intorno a questo concetto è stato costruito il "paradigma" di Slow Food. Grazie all'intervento della Fondazione, che ha solo dettato la linea e offerto le occasioni lasciando la gestione, l'organizzazione e la fase decisionale nelle mani dei referenti locali, la prime comunità sparse in gran parte dell'Africa oggi sono in grado di produrre i propri semi, coltivare i prodotti tradizionali, usare rimedi naturali per fertilizzare il terreno, per combattere insetti nocivi ed erbe infestanti. Il land grabbing, nuova forma di colonizzazione di cui la Cina si sta rendendo protagonista, e le monocolture imposte dalle multinazionali, sono i mali di una terra che ripartendo dall'agricoltura familiare, così come la Fao ha deciso di celebrare nel 2014, ha un'occasione di riscatto davvero a portata di mano.
Il riscatto passa necessariamente dalla conoscenza del proprio patrimonio di varietà, di razze locali, di prodotti agroforestali e in questo senso gli strumenti a disposizione sono la valorizzazione della gastronomia africana che ha mille sfaccettature. I 10mila orti non sono solo i frutti che sfameranno migliaia di persone ma rappresentano un'occasione di preservare le comunità, di frenare l'urbanizzazione incontrollata, di costruire una politica nuova e credibile. Contadini, agronomi, studenti, cuochi guardano ora al progetto come a una grande occasione di liberarsi dal disegno imposto dalle grande istituzioni finanziarie internazionali perché avere 10mila orti entro il 2016 significherà avere soprattutto una rete di giovani leader africani che guideranno a pieno titolo il movimento di Slow Food in Africa e, perché no?, i loro stessi Paesi, forti di una responsabilità, di una coscienza del valore della loro terra che oggi più di ieri rappresenta l'unica via d'uscita.