di Massimiliano Padula
«Non ho toccato io quella palla, è stata la mano di Dio». Era il 22 giugno 1986 e Diego Armando Maradona si toglie la paternità del primo gol all’Inghilterra nel mondiale messicano poi vinto dalla sua Argentina. Ma il numero dieci non si limita a quella rete di “rapina”, ma, come se volesse dimostrare al mondo la sua infinità calcistica, quattro minuti dopo raddoppia segnando il gol più bello della storia del calcio.
È questo uno tra i più importanti flashback dell’esistenza di “Dieguito” morto ieri a 60 anni. Di lui si sa tutto, troppo. Così come saranno tante, troppe le celebrazioni, i ricordi, le testimonianze, immediatamente esplose e condivise dopo la notizia della sua scomparsa. Ciò che conta non è tanto la memoria dell’uomo e dello sportivo, ma ciò che egli ha rappresentato (e rappresenterà) per il futuro dell’umanità, da oggi certamente più povera. Pensare, parlare e scrivere di lui è doveroso perché la sua vita ha accompagnato le nostre, indipendentemente dall’amore per il calcio. Ognuno di noi, infatti, vive di miti e di leggende, proiettando in esse desideri e passioni. I letterati la chiamano affezione, gli psicoanalisti identificazione. Scegliamo persone e affidiamo loro le nostre aspirazioni, impersoniamo nelle loro gesta eroiche i nostri sogni. E questo ci rende donne e uomini “normali”, di fronte a coloro che riteniamo oltre. Maradona è stato proprio questo: un oltre. Oltre l’ordinarietà calcistica che lo ha innalzato a più grande, anche “meglio di Pelé” (come cantavano i tifosi della curva B dello Stadio San Paolo) a cui riuscì a strappare la leadership simbolica di migliore della storia del pallone. Oltre le regole sociali, con i suoi eccessi fuori dal campo, il suo essere evasore, alcolizzato, cocainomane, padre e marito degenere, malato e poi guarito e ancora riammalato fino alla morte. Oltre la condanna e lo stigma sociale che mai ha intaccato la sua immagine pubblica e la sua reputazione percepite nell’ottica del bene e del giusto nonostante tutto. Maradona è stato questo e per questo non può essere definito se non attraverso quell’oltre che non è trascendenza o presunta genialità, ma che invece concretizza l’essere uomo del suo tempo.
Così come Leonardo Da Vinci è il Rinascimento o Dante Alighieri il Medioevo, Diego rappresenta una porzione del Novecento, certamente complessa, ma forse la più splendente, incoraggiante, ricca e patinata. I suoi sono stati decenni di speranza e lui ne è stato segno tangibile, un piccolo grande uomo “venuto dalla fine del mondo” e poi diventato simbolo di periodo di cui avremo sempre nostalgia. Pertanto oggi (e in avvenire) l’auspicio è andare anche oltre le retoriche e i fiumi di parole che travolgono le morti celebri e metterci a raccontare, commentare, criticare, discutere di lui in modo semplice. A casa, con i nostri genitori, i nostri figli, i nostri amici. Sui social network e in ogni spazio possibile. Troveremo probabilmente un legame, ci sorprenderemo per uno sguardo personale, scopriremo un senso speciale. Perché Diego Armando Maradona morto ieri 25 novembre 2020 è tutto questo: l’incarnazione stessa della vita e di tutte le nostre vite.