Bastano cinquant’anni per ragionare della strage di piazza Fontana in termini di verità storica? Lo abbiamo chiesto a Mimmo Franzinelli, storico e autore di La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da Piazza Fontana a Piazza della Loggia. «Credo di sì, il tempo trascorso e la fine della Guerra fredda fanno sì che si possa guardare a quei fatti in una visione prospettica e affermare che l’eccidio di piazza Fontana si inserisce nel contesto storico della Guerra fredda con una sorta di guerra sporca, combattuta nell’ombra da settori della destra radicale legata ai servizi segreti. A fine anni Sessanta l’Italia viveva una profonda trasformazione con un’estensione della partecipazione democratica e con il movimento operaio sindacale che contava e voleva contare di più: un cambiamento che settori del neofascismo provarono a fermare».
La compostezza dei cittadini ai funerali contribuì a impedire che vi riuscissero, ma nel 50° Milano ricorderà la strage con tre cortei. La memoria sarà mai condivisa?
«Difficile spiegare razionalmente tre cortei, ma la memoria è frammentata. In piazza Fontana due lapidi ricordano in modo diverso la morte violenta del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, ritenuto da alcuni vittima aggiuntiva della strage (cadde da una finestra della Questura di Milano in circostanze poco chiare il 15 dicembre del 1969 durante un interrogatorio, ndr). La lapide del Comune lo ricorda come vittima quasi accidentale. L’altra, posta dal Movimento studentesco, con una lettura politica lo rappresenta come vittima di una strategia in cui si colloca anche l’esplosione. Temo che la memoria condivisa sia utopia: parlandone ai giovani bisogna farli ragionare sui dati di fatto e consentire che si formino a ragion veduta un’opinione non per forza uguale alla nostra».
Lei, da storico, che opinione si è fatto?
«Non credo a un piano unico, ma a diverse e plurime strategie della tensione: una destra legata ai servizi segreti voleva attentati dimostrativi che spaventassero l’opinione pubblica e stabilizzassero la situazione politica sul centrodestra. Allo scopo utilizzavano anche la collaborazione di una manovalanza neofascista che credevano subalterna. Penso, però, che i neofascisti perseguissero un’altra strategia: attentati reali, per massimizzare il disordine e sollecitare una risposta d’ordine che trasformasse l’Italia in una caserma, come la Grecia dei colonnelli».
“Mistero italiano” e “strage di Stato”, slogan sommari o storicamente fondati?
«Coperture dei colpevoli da parte di segmenti e funzionari degli apparati riservati dello Stato sono innegabili. Smascherarli avrebbe rivelato connivenze con dirigenze dei servizi. La loro stessa logica portò i servizi a confondere le tracce: di qui la giustizia negata. In conseguenza di ciò, settori della sinistra, indicati dapprima come responsabili della bomba messa invece dai neofascisti, elaborarono in risposta il concetto di “strage di Stato”. Come ogni teoria contiene cose vere e cose decisamente devianti. Ritengo che i neofascisti, facendo esplodere tra la gente una bomba che doveva scoppiare a banca chiusa, siano andati oltre il mandato e che poi abbiano beneficiato di coperture».
Chi non c’era spesso confonde i colpevoli di piazza Fontana con le Br. Perché?
«Forse incide anche il fatto che si sia scelta per il ricordo ufficiale e critico del terrorismo la data dell’uccisione di Aldo Moro. La memoria collettiva dei giovani tende ad appiattire, equivocando in modo colossale il terrorismo stragista della destra neofascista con l’azione sanguinaria delle Br che non commisero stragi, tranne quella di via Fani in cui morì la scorta di Moro, ma che, come dicevano in deliranti comunicati, miravano al cuore dello Stato».
L’ultima sentenza ha individuato i colpevoli senza poterli condannare. È questo a far dire a molti che non si sa abbastanza?
«Penso che dovremmo ripensare procedure giudiziarie complicatissime che tendono a perpetuare processi infiniti. Come storico, cerco di capire come i depistaggi abbiano impedito all’epoca ai giudici di andare fino in fondo, inanellando assoluzioni per insufficienza di prove. Quando poi, più tardi, le prove a carico di Freda e Ventura sono emerse non si è più potuto condannarli per il principio per cui una persona, già assolta con sentenza definitiva, non può essere riprocessata per lo stesso reato».
La sequenza dei fatti
Il 12/12/1969 esplode la bomba: 17 morti, 88 feriti
Il caso pare chiuso in breve con l’arresto dell’anarchico pietro valpreda, ma è un errore
Il processo si celebra a Catanzaro per ragioni di ordine pubblico
Nel 2005 la Cassazione giudica colpevoli gli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura ma, già processati per il principio secondo il quale una persona non può essere processata due volte per lo stesso reato, non li può più condannare. Carlo Digilio esce prescritto