Per qualche giorno Kirill, 75 anni, dal 2009 patriarca di Mosca e di tutte le Russie, è parso scegliere la via di una ipocrita ma accettabile moderazione. Di fronte all’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin, il patriarca si esprimeva con inviti alla pace, alla moderazione e alla comprensione tra i popoli e i fratelli ortodossi. Nei giorni scorsi la svolta. In un momento (la Domenica del Perdono) e in un luogo (la Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, eretta dopo la vittoria russa su Napoleone, distrutta da Stalin e riedificata com’era e dov’era negli anni di Eltsin) scelti con cura, Kirill ha indossato l’elmetto. Un’omelia di guerra, la sua: ha ricordato il Donbass (“Otto anni di repressione e sterminio di persone con il mondo in silenzio”) e ha denunciato un tentativo di prendere “il potere mondiale”. Ma soprattutto ha trasportato la questione ucraina e la guerra atroce in corso da un piano fisico a uno metafisico. Di fatto offrendo al Cremlino una copertura religiosa.
Secondo Kirill, coloro che cercano “il potere mondiale” chiedono una specie di prova di fedeltà: l’adesione all’ideologia dell’orgoglio gay. Ma questo è “un peccato condannato dalla parola di Dio”. E se “l’umanità accetta che il peccato non è una violazione della legge di Dio, se l’umanità accetta che il peccato è una variazione del comportamento umano, allora la civiltà umana finirà lì”. Quindi la guerra in Ucraina è un sacrificio che la Russia compie per la salvezza della “civiltà umana”.
È un sillogismo agghiacciante ma che ha ragioni di politica ecclesiale e motivazioni storiche ben precise. Vediamo le prime. Certo, si ha la sensazione che il Patriarca all’inizio abbia cercato di barcamenarsi e poi sia stato costretto a prendere posizione. Nella prima fase potrebbe aver pesato, sul suo atteggiamento, la consapevolezza di quanto conti il “fattore Ucraina” nella Chiesa ortodossa russa. Moltissimi sacerdoti (c’è chi dice addirittura il 50%) della Chiesa che risponde al patriarcato di Mosca sono ucraini o di origine ucraina. Questo perché il fervore religioso degli ucraini è molto superiore a quello dei russi, come si nota anche seguendo la pratica dei riti e la frequentazione della parrocchia nei due Paesi. In più, la Chiesa ortodossa russa è presente con centinaia di parrocchie in Ucraina, dove nel 2018 è peraltro nata una Chiesa ortodossa dell’Ucraina nazionalista e filo-governativa. In Ucraina, quindi, Kirill rischia la rivolta dei suoi parroci, che non hanno fatto mancare le prese di posizione contro la guerra. E la crescita esponenziale della Chiesa ortodossa nazionale ucraina, che ovviamente si è schierata contro l’invasione russa senza se e senza ma.
Che cosa ha spinto Kirill a diventare un alfiere della guerra? Certo, possiamo immaginare una telefonata di richiamo da quel Cremlino che in questi anni ha molto concesso alla Chiesa ortodossa russa. Ma possiamo anche ricordare che il “rivale” interno di Kirill è il metropolita Tikhon Shevkhunov, il cosiddetto “padre spirituale” di Vladimir Putin, da sempre incline a trattare le relazioni internazionali come una lotta tra la Russia dei valori cristiani e l’Occidente degenerato. Tikhon, come si diceva, ha forti agganci al Cremlino ma è anche molto seguito e apprezzato in un mondo, quello dei monasteri, che non ama molto l’attuale Patriarca. Nella Chiesa ortodossa russa il clero parrocchiale può sposarsi e avere famiglia ma non fare carriera nelle strutture ecclesiali, riservate ai monaci. Le parrocchie sono il contatto con i bisogni della gente comune ma i monasteri sono i fari dell’elaborazione politico-religiosa, i laboratori delle correnti di pensiero che poi influenzano i fedeli. E in quel mondo le teorie “alla Shevkunov” hanno guadagnato moltissimo spazio negli ultimi anni. Kirill, insomma, si sarebbe allineato agli umori di una parte molto influente della sua Chiesa, per non farsi scavalcare e non perdere il controllo.
Ma ci sono ragioni anche molto più profonde di così e ci aiuta a decifrarle padre Stefano Caprio, per molti anni parroco in Russia, slavista e autore tra l’altro di “Lo Zar di vetro – La Russia di Putin (Jaca Book). “Mentre Putin prova a spiega la necessità di questa guerra con riletture del passato recente e di quello remoto della Russia e dei popoli slavi, Kirill trasporta il problema politico su un piano metafisico. Ancor più che uno scontro di civiltà, nelle sue parole echeggia uno scontro tra mondo del peccato e mondo della morale. È il ritorno della teoria di Mosca come terza Roma. Quando Kirill dice che l’Occidente vuole obbligarci a fare le gay parade, è come se stesse citando le teorie del Cinquecento, quando si diceva che Mosca doveva salvare l’umanità dall’eresia, dagli agareni (i discendenti illegittimi di Agar, concubina e non moglie di Abramo, per estensione medievale i musulmani, nd.r.) e dalla sodomia”.
Siamo tornati molto indietro, come si vede, fino ai tempi di Filofej di Pskov, il monaco di un importante monastero russo che scrisse una serie di epistole al gran principe Basilio III di Russia (o al di lui figlio, lo zar Ivan il Terribile) basate sull’idea che “due Rome son cadute, Mosca è la terza, una quarta non ci sarà”, per sollecitare il sovrano a essere all’altezza di una chiamata storica inevitabile, di fatto la guida del mondo. È la vecchia vocazione, o pretesa, universalistica e imperiale della Russia, passata attraverso l’espansionismo degli zar e l’internazionalismo dell’Urss e risbocciata ora con le voglie di rivincita di Putin.