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giovedì 12 settembre 2024
 
Su Vita Pastorale
 

Difendere il bene prezioso della pace e proteggere la dignità umana

27/02/2018  Sulla scia di La Pira l’incontro a Roma dei vescovi del Mediterraneo. La volontà di un gesto forte della Chiesa per fermare la violenza e riportare alla pacifica soluzione delle controversie. La lettera del Presidente della Cei sull'ultimo numero di Vita pastorale.

Custodivo da tempo l’idea nel cuore. Ne ho fatto parola con qualche amico, a margine di incontri che mi hanno portato a tu per tu con persone diverse, accomunate da un respiro culturale ampio. Lo scorso mese, in occasione di un’udienza privata, mi sono sentito di condividerla con il Santo Padre, trovando ascolto, incoraggiamento e indicazioni. Anche tra i vescovi del Consiglio permanente ha subito suscitato un consenso unanime e convinto. Si tratta, in definitiva, di ritrovare le vie che avvicinano e uniscono i popoli del Mediterraneo. Per farlo abbiamo deciso, come Conferenza episcopale, di promuovere un incontro di riflessione e di spiritualità per la pace, puntando a coinvolgere innanzitutto i vescovi cattolici di rito latino e orientale dei Paesi che si affacciano sulle sue sponde.

Non esito a ricondurre idealmente la proposta nel solco della visione profetica di Giorgio La Pira, che era solito definire il Mediterraneo in due modi: come una sorta di «grande lago di Tiberiade» e come il mare che accomuna la «triplice famiglia di Abramo». Secondo la sua visione, proprio l’incontro dei popoli rivieraschi, nella loro comune appartenenza ai valori della trascendenza, può generare qualcosa di profondamente “nuovo” per la storia del mondo intero.

Esattamente 60 anni fa, lo stesso La Pira inaugurava a Firenze i “Colloqui mediterranei”, il cui unico obiettivo era la pace: «Quando questa pace del Mediterraneo sarà fatta e quando sarà fatta la pace fra tutte le nazioni», diceva, «allora noi potremo ricordarci con gioia i divini messaggi di pace che sono risuonati su queste stesse rive».

Oggi più di ieri queste parole profetiche rappresentano un monito di eccezionale importanza. Lo scrivo tenendo davanti agli occhi quanto i Paesi che circondano la nostra Penisola siano quasi tutti investiti non solo da una perdurante e profonda crisi economica, ma, soprattutto, da un groviglio di tensioni politiche e di scontri etnico-religiosi dagli esiti imprevedibili. Da diversi anni il bacino del Mediterraneo è, infatti, al centro di queste profonde crisi, che coniugano instabilità politica, precarietà economica e conflitti a sfondo religioso.

Nello scorso anno abbiamo toccato con mano le tragedie provocate dagli attentati terroristici in Francia, in Spagna e sul Sinai con centinaia di morti; abbiamo assistito inorriditi alle stragi contro i fedeli cristiani in Egitto, Africa e Medio Oriente; abbiamo guardato con viva apprensione ai fenomeni migratori che vedono migliaia di persone fuggire dalle regioni povere dell’Africa, affrontare in condizioni indicibili la traversata del deserto, per morire in mare o finire schiavizzati nei campi di detenzione in Libia. E che dire di un Medio Oriente ormai sull’orlo di una spaventosa deflagrazione? E della distruzione sistematica e tuttora in corso in Siria? Penso al Libano, dove le profonde divisioni potrebbero degenerare ancora una volta in una guerra aperta, provocando – insieme a inenarrabili sofferenze – una marea umana in fuga, con ripercussioni catastrofiche su Paesi quali la Grecia e la Turchia. Penso al mondo balcanico, impoverito da un mancato sviluppo economico e da una precisa determinazione politica dei vari Stati usciti dalle guerre fratricide degli anni Novanta.

Di fronte a uno scenario così preoccupante, più volte mi sono posto il problema di cosa possa fare la Chiesa per difendere il bene prezioso e fragile della pace e proteggere ovunque la dignità umana. Della bontà dell’iniziativa già non mancano riscontri significativi. Penso alla gioia con cui i vescovi di Malta e Gozo l’hanno accolta e commentata, riconoscendovi una modalità per «non permettere che le grida e le speranze dei poveri anneghino e siano sepolte nel Mediterraneo», come pure per aiutare «lo scambio di culture e popoli e destare l’Europa, provocandola ad abbracciare quanti stanno bussando alle sue porte».

Se già non avevo dubbi in proposito, a rafforzarmi definitivamente è stata una visita che ho fatto al Centro Astalli di Roma a fine gennaio. Ho avuto la possibilità di stringere tante mani, di accarezzare volti sofferenti – eppure tanto luminosi e colmi di gratitudine – di abbracciare il dolore e la speranza di centinaia di rifugiati. Ne ho ascoltato con inevitabile partecipazione le storie, così uguali e così diverse, brandelli di carne viva. Nel silenzio del luogo ho visto passare davanti a me gli immensi sacrifici di famiglie spezzate nel tentativo di raggiungere l’Europa e la pace. Ho avvertito che quei sacrifici in buona parte sono legati alle nostre paure: paure che tengono lontano l’altro, paure che fanno diventare diffidenti, paure che generano scarti.

Di qui la ferma volontà di porre, come Chiesa cattolica, un segno forte per tentare di fermare la violenza e riportare tutti al bene della riflessione e della pacifica soluzione delle controversie. Sappiamo per esperienza come la conoscenza diretta è condizione che consente una lettura profonda delle situazioni, la difesa dei cristiani perseguitati, la promozione della pace e la tutela della dignità umana. La rete delle nostre comunità, sparse sulle rive del mare, può davvero rafforzare i legami tra genti e culture diverse e tornare a parlare a quell’Europa che su queste sponde non solo è nata, ma gioca il proprio futuro.

 
 
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