È la sera del 22 aprile 1938, da circa un mese l’Austria è stata annessa al Terzo Reich e per le strade di Vienna infuriano i rastrellamenti nazisti.
Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, è nella sua casa, tormentato da un cancro alla gola che presto se lo porterà via. Mentre dalla sua finestra guarda lo spettacolo triste della violenza ecco che si materializza uno sconosciuto: ha l’aspetto di un pazzo e s’accomoda sulla sedia riservata ai suoi pazienti. Fa domande, allude, dimostra di sapere molte cose del passato di Freud. È nientemeno che Dio. Tra i due inizia un corpo a corpo drammatico, un duello rusticano su vita e morte, senso del dolore, tempo ed eterno.
I medici, incalza Freud, interpretato magistralmente da Alessandro Haber, devono sostituirsi ai santi perché tocca all’uomo «prendersi cura dell’uomo». Ma così non è: i rastrellamenti sotto la sua porta provano che Dio ha fallito, forse non esiste. O, se c’è, è impotente. «Cosa sarebbe Dio se esistesse?», si chiede Freud: «Un bugiardo. Uno che prende un impegno e poi ti scarica».
L’imputato Dio (Alessio Boni) lascia parlare il suo accusatore. Poi, ad un certo punto, si inginocchia, quasi s’avvinghia teneramente alla gamba di quel medico malato e disilluso e confessa il proprio limite, la propria “colpa”: ha creato l'uomo libero, non può fermarlo. Né può opporsi all'arroganza di quella sua creatura: «C'è stato un tempo in cui l'uomo si accontentava di sfidare Dio, oggi prende il suo posto».
La scena, non a caso, è tagliata in due: da un lato, la luce del salotto, dall’altra, la penombra da dove fa il suo ingresso l’oscuro visitatore. Forse quel dialogo serrato è tutto un sogno di Freud, uno scherzo dell’inconscio. O forse quel pazzo è davvero Dio e si è preso la briga di far visita al vecchio Freud. «Per venire a te», dice, «dovevo per forza prendere la forma di un uomo».
Ma alla fine c’è un momento in cui Freud e il misterioso ospite si trovano d’accordo: la musica di Mozart. Ascoltandola, Dio si lascia andare: «Forse ho fatto bene a fidarmi dell’uomo».
Il Freud immaginato dal francese Èric-Emmanuel Schmitt ne Il Visitatore e portato in scena da Valerio Binasco al Teatro Franco Parenti di Milano fa venire in mente la spiritualità inquieta dello scrittore e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno. «Mi religion», diceva, «es luchar con Dio», «lottare con Dio». E aggiungeva: «Coloro che ritengono di credere in Dio, ma senza la passione nei loro cuori, l’angustia nel pensiero, senza incertezze, senza dubbi, senza un elemento di disperazione anche nella loro consolazione, credono solo nell'Idea di Dio, non in Dio stesso».
La battaglia tra Dio e Freud si chiude senza vincitori né vinti. E con un colpo di pistola che l'anziano medico spara all’oscuro visitatore in fuga dalla finestra. «L’ho mancato», esclama beffardo e stremato. Allusione a quella fede solo accarezzata. Credere e dubitare in fondo viaggiano insieme, solo l'indifferenza, come scrive Schmitt, è atea.