La famiglia è «la prima scuola per
comunicare la fede alle nuove generazioni». Lo ha detto il Papa, che
nella catechesi dell’udienza generale di oggi si è soffermato sullo
“stile” comunicativo di Gesù, che «diventa una indicazione essenziale
per i cristiani: il nostro modo di vivere nella fede e nella carità
diventa un parlare di Dio nell’oggi, perché mostra con un’esistenza
vissuta in Cristo la credibilità di quello che diciamo con le parole».
Il Concilio, ha ricordato il Papa, parla della «responsabilità
nell’educare» propria dei genitori, «primi catechisti e maestri della
fede per i propri figli».
«Vigilanza, gioia, capacità di ascolto e di
dialogo»: queste le virtù raccomandati ai genitori Benedetto XVI. «Vigilanza», ha spiegato, significa «saper cogliere le occasioni
favorevoli per introdurre in famiglia il discorso di fede e per far
maturare una riflessioni critica rispetto ai numerosi condizionamenti a
cui sono sottoposti i figli», anche attraverso la «sensibilità nel
recepire le possibili domande religiose» presenti nel loro animo. La
comunicazione della fede, inoltre, per il Papa «deve sempre avere la
tonalità della gioia», che «non tace e non nasconde la realtà del
dolore, della sofferenza, della fatica, della difficoltà,
dell’incomprensione e della stessa morte, ma sa offrire i criteri per
interpretare tutto nella prospettiva della speranza cristiana».
«La vita buona è questo sguardo nuovo,
questa capacità di vedere con gli stessi occhi di Dio ogni situazione»,
ha commentato Benedetto XVI, secondo il quale «è importante aiutare
tutti i membri della famiglia a comprendere che la fede non è un peso,
ma una fonte di gioia profonda, è percepire l’azione di Dio, riconoscere
la presenza del bene, che non fa rumore ed offre orientamenti preziosi
per vivere bene la propria esistenza». Infine, la famiglia «deve essere
un ambiente in cui si impara a stare insieme, a ricomporre i contrasti
nel dialogo reciproco, che è fatto di ascolto e di parola, a
comprendersi e ad amarsi, per essere un segno, l’uno dell’altro,
dell’amore misericordioso di Dio”. In questa prospettiva, ha concluso il
Papa, «parlare di Dio vuol dire far comprendere con la parola e con la
vita che Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto
ne è il vero garante, il garante della grandezza della persona umana».
«Come parlare di Dio nel nostro tempo?
Come comunicare il Vangelo» ai nostri contemporanei, distratti «dai
tanti bagliori della società?». Questi gli interrogativi al centro della
catechesi dell’udienza di oggi, in cui il Papa ha ribadito che «non c’è
salvezza della nostra umanità se non nel Dio di Gesù Cristo», nel quale «ogni persona trova la sua realizzazione». «Parlare di Dio - ha
spiegato il Pontefice - vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che
dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: il Dio di
Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del
come vivere».
Per questo, «parlare di Dio richiede una continua crescita
nella fede, una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, una profonda
conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza,
senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio,
quello dell’incarnazione, quello della parabola del granellino di
senape». «Non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito
che penetra nella pasta e la fa misteriosamente crescere»: questo
l’invito del Papa, secondo il quale «nel parlare di Dio, nell’opera di
evangelizzazione è necessario un recupero di semplicità, un ritornare
all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia del Dio-Amore che si fa
vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce» e alla Resurrezione che «ci
apre alla vita eterna».
L’esempio additato dal Papa è quello
dell’“eccezionale comunicatore” che fu l’apostolo Paolo, per il quale
comunicare la fede «non significa portare se stesso, ma dire apertamente
e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo,
quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da
quell’incontro». «Per parlare di Dio», ci insegna Paolo, «bisogna fargli
spazio, nella fiducia che è Lui che agisce nella nostra debolezza:
fargli spazio senza paura, con semplicità e gioia, nella convinzione
profonda che quanto più mettiamo al centro Lui e non noi, tanto più la
nostra comunicazione sarà fruttuosa».
Una lezione, questa, che secondo
il Papa «vale anche per le comunità cristiane», chiamate a «mostrare
l’azione trasformante della grazia di Dio, superando individualismi,
chiusure, egoismi, indifferenza e vivendo nei rapporti quotidiani
l’amore di Dio». «Sono veramente così le nostre comunità?», si è chiesto
il Santo Padre, che ha esortato a comunicare «come comunicava Gesù
stesso», cioè «con lo sguardo pieno di compassione per i disagi e le
difficoltà dell’esistenza umana». «La sua comunicazione - ha commentato
Benedetto XVI - è stata una continua educazione a chinarsi sull’uomo per
condursi a Dio». Gesù, nei Vangeli, «si interessa di ogni situazione
umana, si immerge nella realtà del suo tempo, con una fiducia piena
nell’aiuto del Padre».