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martedì 15 ottobre 2024
 
 

Diritti di nome, ma non di fatto

13/09/2011  Tutti gli esseri umani dovrebbero essere uguali: lo dice la Dichiarazione universale. Eppure la realtà mostra che le ingiustizie e le disugualianze sono ancora molto diffuse.

Un’altra cosa che mi ha lasciato mio padre è il nome che mi ha dato alla mia nascita: Rolihlahla. Nella lingua Xhosa del mio villaggio Rolihlahla letteralmente significa “tirare il ramo di un albero”, ma il significato comune è “uno che combina un sacco di guai”...
e sono dunque diventato un lottatore per i diritti umani
Nelson Mandela, Il lungo cammino verso la libertà, 1994

   Dice la verità con umorismo Nelson Mandela, la persona più ammirata dai giovani africani delle generazioni della fine del ventesimo secolo e dell’inizio del ventunesimo secolo. Ma credo che la sua osservazione non si applichi solo al sentire comune della cultura Xhosa. La pensano così, anche se preferiscono non dirlo in pubblico, molti leader politici in ogni parte del mondo, perfino dentro ad alcune grandi organizzazioni delle Nazioni Unite. Chi parla, scrive e mobilita le coscienze sui diritti umani, è spesso considerato almeno un rompiscatole. Forse è ovvio che sia così, perché tante regole e abitudini del vivere comune hanno rinchiuso il nostro modo di essere e di pensare in scatole impermeabili: per mettere in pratica i diritti umani capita spesso di dover rompere le scatole di perbenismo con cui si difendono le tradizioni ingiuste.

   Il primo articolo della dichiarazione universale dei diritti umani “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti, sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, sembra chiaro; ma molti fanno finta di non capire che uguaglianza dei diritti non significa che siamo tutti ugualmente intelligenti, ugualmente socievoli o con le stesse capacità; significa invece che tutte le nostre diversità non giustificano una disuguaglianza di diritti. I leader che hanno ispirato le Costituzioni di vari Paesi hanno detto che l’uguaglianza dei diritti tra tutti gli esseri umani è ovvia ed evidente. Certo lo era per loro, ma non per la gran parte delle persone nel mondo che si va globalizzando. Davvero ogni rettore all’università pensa di avere gli stessi diritti di ogni studente? Davvero ogni cattolico pensa di avere gli stessi diritti di un cardinale o del Papa? O ogni rifugiato in Somalia è trattato come se avesse gli stessi diritti del presidente Obama? O il ministro di turno pensa di avere gli stessi diritti di ogni immigrato che arriva in un barcone? E in fondo in fondo, ci crediamo davvero?

   Visto che il primo articolo parla di fratellanza, ogni volta che vediamo in tv un bambino che sta per morire di fame sentiamo un brivido nella schiena e ci mobilitiamo come se fosse un fratello o un figlio in famiglia? La solennità e importanza di questo principio scricchiola quasi ovunque nel mondo. Tanto che perfino governi insospettabili sono ben sicuri di avere qualche diritto in più degli altri e non si vergognano di dichiarare che i diritti economici e sociali non sono veri diritti, ma solo “aspettative importanti” dei popoli.
Sandro Calvani
direttore del Centro Asean sugli obiettivi di sviluppo del Millennio dell'Onu

   Chissà se alla globalizzazione economica seguirà mai quella dei diritti. Uno sguardo obiettivo sulla situazione internazionale porta all'amara conclusione che le merci contano più degli uomini. Una bestemmia, per chiunque creda nella giustizia e nella diginità di ogni essere umano. Le prove, purtroppo, abbondano. Possiamo partire dai diritti elementari: quello a nascere, crescere, nutrirsi, avere una formazione e un lavoro, avere una casa, poter formare una propria famiglia... Quale percentuale dell'umanità gode di questi diritti?   

   Non sono ovviamente questioni che si possano risolvere in pochi giorni, ma a far difetto sono anzitutto la volontà e la sensibilità. Lo dimostra in maniera equivocabile il comportamento dell'Occidente rispetto al tema dell'immigrazione. Dovrebbe essere chiaro a tutti che  nessuno ha scelto se e dove nascere, eppure il luogo in cui siamo venuti alla luce determina il nostro destino. Non abbiamo meriti se siamo nati in una società ricca, che ci ha permesso di crescere, avere un'istruzione, trovare un lavoro... Né può essere una colpa l'essere venuti alla luce in un angolo di mondo povero, dove è un miracolo scampare alla morte e diventare adulti.   

   Il primo passo che un mondo civile dovrebbe compiere dovrebbe essere quello di non rifiutare l'immigrato che, lasciando la fame, la guerra, la miseria, l'oppressione, mette la sua vita su un barcone, cercando una possibilità diversa. Ciascuno è in grado di valutare se le politiche dell'immigrazione del mondo ricco siano improntate all'accoglienza o al rifiuto. Persino nella civile Europa, e persino in Paesi tradizionalmente più ospitali, soffia un vento di chiusura, di egoismo, alimentato ad arte con la paura. Sulla carta, come si sottolinea nella pagina precedente, siamo tutti uguali, abbiamo lo stesso diritto a cercare la felicità. Ma nella realtà?

   Occorrerà ricordare qualche dato, attingenzo a rapporti delle Nazioni Unite. I tre multimiliardari più ricchi del mondo possiedono patrimoni superiori della somma aritmetica del Prodotto nazionale lordo di tutti i Paesi a sviluppo minimo e dei loro 600 milioni di abitanti. I cinque uomini più ricchi del mondo possiedono beni che superano il Prodotto interno lordo di tutta l’Africa Subsahariana. Il divario fra il reddito del quinto più ricco e del quinto più povero della popolazione mondiale dal ’60 al ’97 è passato da un rapporto di 30 a 1 a 74 a 1, più del doppio. Ottantacinque Paesi hanno un reddito pro-capite inferiore a 10 anni fa. Il 20% della popolazione mondiale che vive nelle nazioni a più alto reddito controlla l’86% del Prodotto interno lordo mondiale. Il 32% della popolazione mondiale e il 42% della popolazione africana sopravvive con meno di un dollaro al giorno. Attualmente 800 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza. Ogni anno sette milioni di bambini muoiono di fame e la cifra va aumentando vertiginosamente...

   Forse è arrivato il momento di capire che il primo diritto è quello a emigrare, vale a dire, a cercare un futuro diverso e migliore.

Paolo Perazzolo

Questo articolo chiude il dossier sulla Giornata mondiale dell'interdipendenza. Le altre tre puntate sono state pubblicate il 10 (Il destino comune dell'umanità), l'11 (Crescita, idolo del nostro tempo) e il 12 settembre (Il pianeta ha la febbre).

 
 
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