Era solo il 1999 quando la legge n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) sanciva per la prima volta l'obbligatorietà - per i datori di lavoro sia pubblici che privati - di avere alle proprie dipendenze una quota minima di persone disabili, variabile a seconda del personale impiegato: «a) sette per cento dei lavoratori occupati, se [i datori] occupano più di 50 dipendenti; b) due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti; c) un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti».
Eppure, nonostante il provvedimento legislativo e la sempre maggiore attenzione che viene posta sul tema della diversità in ogni sua forma, sembra che lo Stato fatichi ad attuare politiche efficaci per l'inserimento delle persone diversamente abili nel mondo del lavoro. Secondo lo European Human Rights Report 2023, ad esempio, nel 2019 in Italia soltanto il 47,4% dei giovani disabili d'età compresa fra i 20 e i 29 anni era impiegato in attività lavorativa, a fronte del 57,8% dei loro coetanei senza disabilità: ben 10,4 punti di differenza, specchio del più generale gap occupazionale fra disabili (51,6%) e non (62,6%) nel nostro Paese.
(Sopra, le percentuali relative al 2019-2020 che mostrano l'occupazione delle persone disabili negli Stati membri dell'Unione Europea. L'Italia, con il suo 51,6%, si colloca nella "terra di mezzo", lontana dal 32,6% di Irlanda e Grecia, ma non abbastanza vicina al 64,9% dell'Estonia).
Daniele Cassioli, 37 anni, è il più grande sciatore nautico paralimpico di sempre: ha vinto 41 titoli italiani, 27 europei e 25 mondiali.
Ma quali sono, nel concreto, gli ostacoli che un giovane portatore di handicap deve affrontare per ottenere una professione? Le difficoltà si palesano quando è il momento di assumere, oppure bussano alla porta già negli anni della formazione scolastica? Ne abbiamo parlato con Daniele Cassioli, campione paralimpico di sci nautico, ex fisioterapista, formatore aziendale, fondatore dell'associazione Real Eyes Sport nonché presidente onorario della Piramis Group Onlus, che - come dice lui stesso - ha fatto del proprio limite, la cecità, un punto di forza.
Con quali problemi deve fare i conti una persona diversamente abile quando cerca lavoro?
«Le difficoltà sono tantissime, e cominciano tra i banchi di scuola. Penso ad esempio a un bambino o a un ragazzino cieco: per lui già il fatto di studiare non è semplice, perché i libri spesso arrivano in ritardo, oppure perché il personale scolastico non è adeguatamente formato sull'argomento. Questo naturalmente fa sì che, nel corso degli anni, moltissime persone disabili non ottengano un titolo che avrebbe un impatto decisivo sul tipo di carriera che potrebbero intraprendere. Per quanto riguarda il mondo del lavoro, devo dire che fortunatamente molte aziende si stanno aprendo al tema della diversità: l'obiettivo ambizioso è far sì che non sia soltanto facciata, ma diventi anche sostanza».
Come?
«Iniziando a far lavorare queste persone, "sporcandosi le mani" con la disabilità».
Tu sei laureato in Fisioterapia. Qual è la situazione negli atenei?
«In università, nonostante l'esistenza di uffici delegati alla diversità o alla disabilità, si incappa in inconvenienti di vario tipo (il sito non è accessibile, l'ascensore rotto non è riparabile perché mancano i fondi, il professore non ha tempo extra da dedicare agli studenti perché magari svolge un secondo lavoro...) e molto spesso quando una persona disabile si laurea è perché qualcuno ha preso a cuore la sua storia. Ad oggi, laurearsi da persona non vedente, o con lo spettro autistico, o con la dislessia è qualcosa di straordinario: invece, dovrebbe diventare ordinario. C'è bisogno di un sistema più efficace, non solo per far sì che queste persone trovino al di fuori una collocazione lavorativa soddisfacente, ma soprattutto per consentire anche a loro di vivere la socialità, le amicizie e le esperienze legate alla vita universitaria».
(Il rapporto 2022 dell'Anvur, l'Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca, riporta che nell'a.a. 2019-2020 erano 36.816 gli alunni con disabilità o con DSA iscritti ai corsi di laurea e post-laurea: il 2% del totale degli studenti).
Qual è, secondo te, l'impatto della disoccupazione sulle persone disabili?
«La conseguenza più grave è la perdita di autostima. Il lavoro, per quanto pesante o faticoso, è qualcosa che dà dignità a una persona (la seconda domanda che facciamo a qualcuno appena conosciuto è proprio "Che lavoro fai?"), che spesso conferisce anche il senso di appartenenza a una comunità: quante volte si organizzano cene o aperitivi insieme ai colleghi?».
Tu sei un formatore aziendale. Nelle persone che formi, riscontri pregiudizi rispetto all'idea di assumere una persona con disabilità?
«Non saprei, forse c'è ancora qualcuno che ha pregiudizi ma non ha il coraggio di dirlo [ride, ndr]. Penso piuttosto che vi sia una scarsa conoscenza dell'argomento: si cerca sempre il linguagggio migliore per parlare con i disabili, ma alla fine si sottostimano le loro competenze. Sono individui con le loro peculiarità, non una categoria da considerare in blocco, e bisogna avere il coraggio di metterli alla prova, di farli esprimere, di valorizzarli. Anche perché, poi, questo si ripercuote positivamente sulla collettività dell'azienda».
Esistono degli step specifici per cercare lavoro quando si ha una disabilità?
«Ci sono le agenzie interinali e gli uffici di collocamento. In alcune agenzie esistono degli uffici preposti o una figura più formata, ma io conosco gente con una disabilità che, ahimè, cerca lavoro da molto tempo e fatica a trovarlo».
E infatti, il tasso di persone disabili che lavorano non è molto alto...
«Essere disabile ti condanna 1 volta su 3 a non lavorare, e se sei donna ancora peggio. Le pensioni di invalidità non vengono ritoccate da decenni, mentre il costo della vita aumenta ogni anno».
Tutto questo, poi, ricade sulla famiglia.
«Assolutamente sì, i care-giver spesso e volentieri sono i genitori. La mamma di un ragazzino disabile, ad esempio, nella migliore delle ipotesi è condannata al part-time, un po’ perché si tende a sacrificare la carriera meno remunerativa – e questo, ahimè, è un problema che riguarda più spesso le donne che gli uomini –, un po’ perché devono diventare psicologhe, infermiere, insegnanti di sostegno dei propri figli, e questo non è compatibile con un sistema aziendale».
C'è qualcosa che un'azienda può e deve fare in questa direzione?
«Sì. L’azienda dovrebbe assumere persone disabili perché crede nelle loro potenzialità, perché li percepisce come valore aggiunto, e non farlo soltanto perché viene imposto per legge. Solo a questo punto si possono intraprendere azioni concrete, come fare cultura all’interno dell’azienda stessa e mettersi in gioco, investendo tempo nelle nuove potenziali risorse senza limitarsi a riempire una casella di categoria protetta».