Torna a parlare del commercio delle armi e del denaro. Degli interessi di parte che soffocano la pace. E di quella indifferenza che è «la grande malattia del nostro tempo, un virus che paralizza, rende inserti e insensibili, un morbo che intacca il centro stesso della religiosità, ingenerano un nuovo tristissimo paganesimo: il paganesimo dell'indifferenza».
Dopo aver pregato insieme con gli altri cristiani nella basilica inferiore di San Francesco, papa Bergoglio raggiunge il palco della piazza antistante la basilica con il rabbino Abraham Skorka, rettore del Seminario Rabbinico Marshall T. Meyer (Argentina); con il professor Abbas Shuman, vice-Presidente dell’Università Al-Azhar (Egitto) e con il Molto Venerabile Gijun Sugitani, Consigliere Supremo della Scuola Buddista Tendai (Giappone). Da quella stessa piazza dove 30 anni fa Giovanni Paolo II, in piena guerra fredda, convocò i leader religiosi per chiamarli a un comune impegno di preghiera per la pace, il mondo aspetta una nuova speranza. Parla Tamar Mikalli, fuggita dalla Siria in guerra con tutta la sua famiglia, parla il rabbino David Brodman, testimone della shoa, parlano Bartolomei, il buddista Morikawa e il presidente del consiglio degli Ulema Syamsuddin. Papa Francesco, che prende la parola per ultimo ricorda che «la pace è dono di Dio e a noi spetta invocarla, accoglierla e costruirla ogni giorno con il suo aiuto».
E allora, per chi soffre per le guerre, spesso dimenticare, per le «famiglie, la cui vita è stata sconvolta; i bambini, che non hanno conosciuto nella vita altro che violenza; gli anziani, costretti a lasciare le loro terre» Francesco chiede attenzione e preghiera. «Non vogliamo», dice «che queste tragedie cadano nell’oblio. Noi desideriamo dar voce insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c’è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita.
Noi non abbiamo armi. Crediamo però nella forza mite e umile della preghiera».
Francesco chiarisce che «la pace che da Assisi invochiamo non è una semplice protesta contro la guerra, nemmeno», come già aveva detto Giovanni Paolo II, «"è il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici. Ma il risultato della preghiera". Cerchiamo in Dio, sorgente della comunione, l’acqua limpida della pace, di cui l’umanità è assetata: essa non può scaturire dai deserti dell’orgoglio e degli interessi di parte, dalle terre aride del guadagno a ogni costo e del commercio delle armi».
Il Papa guarda alla differenza delle tradizioni religiose per dire che queste non sono motivo di conflitto. Che Assisi dimostra che, «senza sincretismi e senza relativismi», si può pregare «gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri». Sapendo che «chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l’ispirazione più autentica e profonda e che ogni forma di violenza non rappresenta "la vera natura della religione. È invece il suo travisamento e contribuisce alla sua distruzione"», come disse sempre ad Assisi, nel 2011 papa Benedetto.
Nessuna guerra può essere condotta nel nome di Dio, «mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa e non la guerra!», esclama il Papa.
E sulla preghiera spiega che la preghiera non è «la quiete di chi schiva le difficoltà e si volta dall’altra parte, se i suoi interessi non sono toccati; non il cinismo di chi si lava le mani di problemi non suoi; non l’approccio virtuale di chi giudica tutto e tutti sulla tastiera di un computer, senza aprire gli occhi alle necessità dei fratelli e sporcarsi le mani per chi ha bisogno. La nostra strada è quella di immergerci nelle situazioni e dare il primo posto a chi soffre; di assumere i conflitti e sanarli dal di dentro; di percorrere con coerenza vie di bene, respingendo le scorciatoie del male; di intraprendere pazientemente, con l’aiuto di Dio e con la buona volontà, processi di pace».
Una pace che significa perdono come frutto di conversione, accoglienza, disponibilità al dialogo, superamento delle chiusure. E se, come uomini di fede, c'è il desiderio di pregare insieme e collaborare per la pace, non manca l'appello anche ai leader delle nazioni «perché non si stanchino di cercare e promuovere vie di pace, guardando al di là degli interessi di parte e del momento: non rimangano inascoltati l’appello di Dio alle coscienze, il grido di pace dei poveri e le buone attese delle giovani generazioni».