"Diftntt ”. Non è un errore
di stampa, ma il
modo in cui un bambino
dislessico potrebbe
visualizzare la parola
“divertente”. La dislessia infatti si
presenta come un disturbo di lettura
e scrittura, dovuto alla difficoltà di apprendere
e stabilizzare la corrispondenza
fra lettere e suoni, soprattutto quando
i fonemi hanno sonorità molto affini
(“d” e “t”, “p” e “b”, “f” e “v”). Così può
accadere che le parole di un testo appaiano
più vicine, affollate, distorte, sfocate
o addirittura orientate diversamente
sul foglio.
«Non si tratta di una malattia, né di
un ritardo mentale e neppure di qualche
minorazione sensoriale o neurologica», spiega il professor Giacomo Stella,
direttore scientifico della rete nazionale
Sos Dislessia (www.sosdislessia.it)
e ordinario di Psicologia clinica presso
la Facoltà di Scienze della formazione
dell’Università di Modena e Reggio
Emilia. «Apparentemente inspiegabile,
la dislessia è stata a lungo confusa con
pigrizia, svogliatezza e mancanza di impegno,
mentre negli ultimi anni le neuroscienze
hanno dimostrato come l’origine
stia nelle aree cerebrali deputate
all’elaborazione del linguaggio e dei segni
scritti, che in alcuni soggetti lavorano
in maniera diversa e richiedono un
maggiore impegno nel processo di automatizzazione
di queste azioni».
La causa è genetica
Il disturbo alla base è di tipo costituzionale
e dipende dall’eredità familiare di
alcuni geni che – all’interno della corteccia
cerebrale – generano piccole anomalie
nel circuito incaricato alla lettura: immaginiamo
un impianto elettrico, dove la
corrente salta qualche passaggio nel
normale percorso, determinando, ad
esempio, l’accensione di una sola lampadina
anziché dell’intero lampadario.
In quanto congenita, la dislessia non
può scomparire del tutto ma permane
per l’intero corso della vita, seppure
con diversi gradi di espressività a seconda
del recupero più o meno efficace.
«In Italia, la problematica interessa
il 3-3,5 per cento della popolazione, soprattutto
maschile, ovvero circa un milione e ottocentomila persone», riferisce
il professor Stella. «La percentuale
raddoppia in Paesi come la Gran Bretagna
o la Francia, dove il sistema ortografico è irregolare e le parole non si leggono
come si scrivono, complicando le
cose».
La scuola è rivelatrice
Di norma, ci si accorge della dislessia
durante i primi anni di scuola, quando
i bambini presentano un’inattesa difficoltà durante lettura e scrittura, senza
aver manifestato fino ad allora comportamenti
anomali (solo in alcuni casi possono
esistere segni premonitori, come
disturbi del linguaggio o gravi problemi
di attenzione).
Raramente è isolata, perché nella
maggior parte dei casi è associata ad altri
disturbi dell’apprendimento: la disortografia, ovvero la difficoltà nell’applicare
le comuni regole ortografiche;
la disgrafia, cioè l’utilizzo di una calligrafia sproporzionata nella grandezza,
mal distribuita sul foglio e spesso illeggibile;
la discalculia, ossia l’incapacità
di eseguire calcoli in modo automatico
e imparare le procedure delle operazioni
aritmetiche.
Un senso di sfiducia
Il risultato è un rendimento scolastico
discontinuo, inferiore alle aspettative,
che genera nei bambini sentimenti di
sfiducia, frustrazione e la convinzione di
essere poco intelligenti rispetto agli altri
compagni, che non mostrano le stesse
difficoltà.
Si rivela allora essenziale il ruolo delle
famiglie e degli insegnanti, che devono
evitare tutti quegli atteggiamenti di
rimprovero in grado di minare l’autostima
e generare un vero e proprio terrore
per la lavagna e le interrogazioni, premiando,
ad esempio, lo sforzo piuttosto
che il risultato.
Dunque, che fare? «I genitori che notano
una marcata difficoltà di scrittura
e lettura nei figli all’inizio della scuola
primaria possono richiedere un parere
specialistico, pubblico o privato,
a neuropsichiatri infantili, psicologi o
logopedisti», suggerisce Stella. «A quel
punto, potranno essere individuate
particolari strategie educative, finalizzate
a migliorare le abilità personali,
assecondando le modalità di apprendimento
dello studente».