Dall’introduzione della legge 8 ottobre 2010, n. 170 a oggi, la dislessia, la sua diagnosi e la gestione dei bambini in aula hanno creato un dibattito incessante tra gli insegnanti. Siamo sicuri che tutti i bambini siano dislessici? Il dubbio resta. «A noi risulta che la dislessia sia un disturbo neurologico», spiega Jone Cocco Ordini, 48 anni, insegnante di lettere presso una scuola media milanese. «Riceviamo certificazioni in tal senso emesse da istituzioni sanitarie pubbliche o accreditate, e indicazioni precise sulle misure compensative da adottare. Personalmente io non sono in grado di valutare, né tanto meno di mettere in dubbio, quelle che sono delle vere e proprie diagnosi cliniche. Spero che i professionisti che le emettono non si prestino a coprire indolenze e/o pigrizie!»
Jone riflette quindi anche sull'idea che ci possano essere bambini o ragazzi “felici” di vedersi certificato quello che comunque è e resta un handicap, nel senso letterale, cioè una difficoltà con cui devono fare i conti: «Io non ne ho mai incontrati. Se mai, al contrario, ho avuto alunni che si rifiutavano di usare il Pc perché ai compagni non era permesso, persino in sede di esame, quando questo significava per loro assicurarsi uno o più voti in meno.»
Jone racconta, inoltre, che di ragazzi "a voglia zero" ce ne sono parecchi e che «anche nei casi in cui è evidente che la loro assenza di motivazione abbia delle cause serie, di tipo personale oppure famigliare-sociale, essi non ricevono alcuna certificazione e, dunque, non si avvalgono proprio di nessuna misura». Nella pratica quotidiana, ciò che la colpisce di più è «la scarsissima capacità di attenzione/concentrazione manifestata dalla maggior parte degli alunni Dsa. Questa difficoltà, più che le altre, è per me ciò che realmente ostacola il loro processo di apprendimento, e purtroppo non c'è misura compensativa che possa eliminarla. In alcuni casi i ragazzi stessi compensano con una vivacità intellettuale sopra la norma, ma in molti altri purtroppo no».
Luisa Brambilla, insegnante di lettere in un istituto tecnico commerciale, avverte dei rischi della sopravvalutazione della diagnosi: «Mi sembra che la diagnosi della dislessia sia troppo diffusa e troppo spesso sopravvalutata. Sicuramente ci sono casi di ragazzi con disturbi cognitivi gravi che necessitano di didattica speciale e metodi dispensativi. Tuttavia, mi pare che negli ultimi anni si stia esagerando e di fronte a lievi difficoltà cognitive, che tutti abbiamo o abbiamo avuto, si ricorra troppo facilmente a visite mediche. Queste producono diagnosi che ho l'impressione che spesso attribuiscono ai bambini difficoltà che forse hanno ma che sono superabilissime con l'impegno e, soprattutto, con il tempo».
Secondo Luisa Brambilla queste diagnosi marchiano i ragazzi «inducendoli a trincerarsi dietro le presunte difficoltà arrivando a crederle reali e insuperabili o a usarle come alibi per scarsa voglia di impegnarsi. Anche i genitori assumono atteggiamenti iper protettivi e spesso ricattatori nei confronti degli insegnanti». Naturalmente, come sempre avviene, si tratta di gestire queste cose con buon senso: «Genitori sensati riescono a relativizzare i problemi, a spronare i figli al miglioramento, a collaborare con la scuola in modo costruttivo. Accade spesso, però, che i genitori in nome della presunta dislessia giustifichino qualsiasi comportamento dei figli e pretendano dalla scuola interventi e attenzioni esagerati e tolleranza rispetto a comportamenti che con la dislessia non hanno niente a che fare ("deve capirlo, è dislessico...")».
La prof. Brambilla racconta a quali assurdità può portare l’eccesso di tutela: «Sono reduce oggi da un consiglio di classe straodinario convocato per redigere un piano didattico personalizzato per un ragazzo che ha prodotto documenti relativi a un’enormità di disturbi ma che ha la media del 7 in tutte le materie. A fronte dei documenti noi siamo obbligati dalla legge ai provvedimenti dispensativi e al piano differenziato, ma la cosa pare proprio assurda! Forse fa più fatica degli altri a ottenere quei risultati, può essere. Ma perché marchiarlo e rischiare di indurlo a sedersi?».
Altro racconto di vita quotidiana in classe: «Ci sono poi quelli che non portano libri e quaderni e quando vengono ripresi ti dicono: “Ma come, lei non sa che io sono dislessico?”. Cosa devo rispondergli? Non nego che ci siano casi di reale difficoltà che vanno seguiti con attenzione. Generalmente, però, sarei molto più prudente nell’ arrivare a conclusioni troppo drastiche rispetto a disagi che possono essere temporanei, superabili o semplicemente segno di scarso interesse e motivazione».
Infine, più critica è Paola Spotorno, insegnante di diritto in un liceo socio-psico pedagogico, che punta il dito contro gli specialisti: «Credo che bisognerebbe porre più attenzione e professionalità quando si parla questo tema così delicato. Oggi sin troppi esperti si stanno confrontando come molti di noi sui problemi che sono scaturiti negli ultimi anni dall'eccesso di certificazioni... Ma credo che una mano sulla coscienza oltre che i genitori e i loro figli svogliati se la debbano mettere anche molti psicologi che stanno facendo affari sulla pelle di tutti: insegnanti, alunni con e anche alunni che non ne sono affetti».