La copertina del libro
Forse è proprio vero che ognuno di noi si rivela per quello che è nell’azione. Non quando riflette o pensa o compie imprese mirabolanti ma quando agisce nel concreto della vita di tutti i giorni: fosse pure lavare i piatti, fare shopping o aggiustare il rubinetto. Gli antropologi la chiamano esperienza.
Non esiste, però, l’esperienza dell’uomo in generale ma l’esperienza di Marta, Lucia, Teresa, Cristiana, Angelo. Sono loro i protagonisti di Obbedire è meglio (Sonzogno, pp. 176, € 15) l’ultimo libro di Costanza Miriano che dopo i best seller Sposati e sii sottomessa, per il quale in Spagna s’è beccata l’accusa di incitamento alla prevaricazione sulla donna, e Sposala e muori per lei torna in libreria per raccontare la sua Compagnia dell’Agnello. Partendo proprio dalla vita quotidiana e dal suo mix di angoscia e dolcezza, figli da accudire e problemi, lievi e pesanti, da affrontare.
Costanza, perché obbedire è meglio?
«La frase è tratta dal libro di Samuele, “Obbedire è meglio del sacrificio”, perché si tratta di obbedire a un Padre che ci ama e quindi quello che ci chiede non è mai una fregatura ma è qualcosa per la nostra felicità. Prendiamo i dieci comandamenti: sono dieci parole di vita. Il mio non è un elogio dell’obbedienza tout court, agli ordini in assoluto, ma all’ordine giusto. Quello di Dio».
Ma i componenti della Compagnia dell’Agnello sono supereroi?
«No, sono persone vere, normalissime. Nessuna storia è inventata, purtroppo non ho questa fantasia. Sono persone che mi fanno vedere ogni giorno, attraverso la loro amicizia e vicinanza, questa obbedienza nella loro vita, la loro “agnellitudine” contagiosa. Spesso obbediscono a realtà anche faticose e laceranti: malattie dei figli, ristrettezze economiche, un lavoro impegnativo e difficile o che non c’è proprio. Mi fanno vedere, pur nel limite e nella contraddizione, che ce la fanno, che non solo è possibile obbedire ma anche essere felici. E soprattutto che si può anche porgere il collo mitemente e lasciarsi fare del male, non perché siano scemi o masochisti ma perché hanno deciso di non entrare in risonanza col male degli altri e di non permettere che questo male, ripartendo ingrossato dalla nostra reazione, si moltiplichi. Sono amici con cui spesso ci frequentiamo e ci incoraggiamo a vicenda sulla nostra esperienza, sulla fatica e la bellezza di stare al proprio posto, a combattere giorno per giorno nel pezzetto di trincea che ci è stato assegnato».
Quali virtù bisogna praticare per “entrare” nella Compagnia?
«Non è questione di virtù. Prima si tratta di capire quello che ti rende veramente felice. Se uno capisce questo, non deve fare uno sforzo di volontà ma semplicemente aderire. Perché è un’adesione che conviene, che è vantaggiosa anzitutto per se stessi. Prima bisogna comprendere, poi vengono le virtù per attuare ciò che si è compreso: la mitezza, la mansuetudine, l’umiltà del cuore, la docilità. L’agnello è quello che porge il collo ma lo fa in maniera elegante, non si lamenta come il maiale quando viene scannato. Ecco, obbedire è porgere il collo al quotidiano che spesso è noioso e pesante e a volte colpisce duro. Non è questione di essere docili all’autobus che non passa, queste sono sciocchezze, ma, ad esempio, al marito che ti abbandona con tre figli e se ne va, allo scoprire la malattia del figlio, al tumore che ti sorprende mentre sei incinta, come dimostrano i protagonisti delle storie che racconto. Eppure, come diceva Michelangelo, la bellezza si realizza per via di “levare”, togliendo qualcosa. Anche noi nel nostro blocco di marmo abbiamo una bellezza nascosta che a volte il Signore tira fuori piano piano, con dolcezza, a volte con dei colpi di scalpellino più forti e dolorosi».
Caravaggio, Sacrificio di Isacco, Galleria degli Uffizi, Firenze
Qual è il premio per chi obbedisce? La felicità o la libertà?
«La vera, unica schiavitù è quella del peccato e quindi la vera libertà è essere liberi dal peccato. Paradossalmente, come diceva don Giussani, la nostra libertà è la cosa a cui Dio tiene più in assoluto, anche più della nostra stessa salvezza. Certo, essere liberi è una grande responsabilità. Personalmente tendo a dire la felicità ma le due cose non sono separate. Gesù è stato chiaro: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”».
Ti definisci più che scrittrice traduttrice degli insegnamenti della Chiesa. Come mai?
«Perché è quello che faccio. Mi piacerebbe aver inventato delle storie o creato dei personaggi romanzeschi ma io mi limito a tradurre in un linguaggio semplice e comprensibile tutte quelle cose che ho sentito in tante occasioni: colloqui con il mio padre spirituale, omelie, ritiri spirituali, per farle arrivare a chi non ha dimestichezza con queste cose. Ho cercato di infilare nel libro la vita quotidiana, a volte sottolineando anche gli aspetti più frivoli perché ho pensato che così avrei potuto raggiungere un maggior numero di persone. Insomma, si può comprare una bellissima giacca di Chanel e leggere insieme Elle, anche se non si condivide la filosofia, e Sant’Agostino senza apparire schizofrenici».
Anche tra i cattolici c’è quest’idea che la fede è rinuncia a tutto, anche ai piccoli piaceri quotidiani.
«Il Nemico ha sempre dimostrato di avere scarsa fantasia. Dall’Eden in poi, la strategia è sempre la stessa: dire che Dio ti vuole togliere tutto, anche i piaceri. Io credo invece che alla fine tutto ti viene restituito anche se c’è sempre una potatura dolorosa. Non a caso la Chiesa con papa Francesco sta insistendo molto su questo: far conoscere la misericordia e l’amore del Padre. Se uno avverte concretamente questo amore ed è consapevole di essere amato, è più facile che obbedisca e non dica: “Faccio da solo”. Ne ho tanti di amici così, è la cultura prevalente oggi: pensare che tutto si può decidere in base a come ti senti, non volere che ci sia nulla sopra di te. Anche alla base dell’ideologia del gender c’è il rifiuto radicale della propria identità sessuale. Per questo il Papa sta sottolineando il discorso della misericordia più che dei principi non negoziabili perché ha capito che il mondo non ci sente da quell’orecchio. I veggenti di Medjugorje riferiscono che la Madonna raccomanda sempre di non dire i “non credenti” ma “coloro che non hanno conosciuto l’amore di Dio”. Curioso, no?».
Nel libro tu scrivi: “Solo se sai di essere cattivo perdoni e non gridi i tuoi diritti”. Che significa? L’obbedienza per un cristiano passa dall’accettazione del limite, del peccato?
«Sì. Il mondo, dal buon selvaggio in poi, crede che l’uomo sia sostanzialmente buono e che non ha bisogno di essere aiutato, scolpito, redento, diremmo noi cattolici. Oggi si pensa che basta fare la raccolta differenziata o mangiare biologico per risolvere la questione. Invece il Vangelo ci dice che solo Dio è buono e che anche noi, qualche volta, pur essendo cattivi, possiamo dare qualcosa di buono agli altri. Ma senza la Grazia rimaniamo cattivi, anche quando compiamo azioni buone. È qui il punto centrale dove l’antropologia cristiana si scontra maggiormente con una parte del pensiero contemporaneo».
Costanza Miriano, 43 anni, è sposata e ha quattro figli. Il primo libro, "Sposati e sii sottomessa" è stato tradotto in Francia, Slovenia e prossimamente anche negli Stati Uniti
Nel primo libro ti rivolgevi alle donne, nel secondo, a dispetto del titolo, pure. Questo per chi è?
«Per entrambi, direi (ride, ndr). Almeno lo spero. Guido, mio marito, s’innervosisce quando vede che nello scrivere mi dilungo e non vado dritta al punto».
Perché sei una donna.
«Esatto! Lui mi punzecchia sempre. E io ribatto: “Ma se facessi così, scriverei solo due pagine!”. Alla fine ho fatto un cartellone che ho appeso davanti alla scrivania segnando le cose da dire nei vari capitoli. Poi le ho “condite” con le storie concrete per non essere noiosa ed evitare l’effetto sermone. Lui però mi dice sempre di essere più concreta. Lo capisco. Per lui, che è un maschio, le parole servono solo per comunicare concetti. Per noi donne servono per esprimere noi stesse, creare relazioni, sfogarsi, lamentarsi, scambiarsi opinioni...».
Uomini e donne sono due universi agli antipodi. Se è così, meglio non sposarsi no?
«Lo diceva Gesù anche ai suoi discepoli. Questo è un mistero grande. Il matrimonio è un’avventura enorme, difficile. Penso che la vera fregatura sia pensare che la simbiosi dell’innamoramento, tutta fiori, cioccolatini e paroline romantiche, duri anche dopo. O che basti. Invece poi, nella realtà, quando ci si conosce cambia tutto perché si scoprono i difetti, i limiti, le imperfezioni dell’altra persona anche se la si ama. Il vero passaggio si compie quando si capisce che il matrimonio è un lavoro, la parola è brutta ma rende l’idea, un impegno, una missione. Farlo funzionare è complicato, bisogna lavorarci su. Molte amiche mi dicono che la sera il marito guarda la Tv e loro fanno un'altra cosa. E io consiglio di stare vicino a lui, come faccio io che spesso mentre lui guarda le serie americane mi addormento. Almeno però mi sforzo! Oggi nessuno ti dice che questa fatica è normale e va fatta. Conosco tante persone che dicono di essere libere ma sono profondamente infelici. E sole».