Si intitola Divine parole lo spettacolo che Damiano Michieletto ha messo in scena al Piccolo di Milano, eppure, in oltre due ore di recitazione, lo spettatore assiste al dispiegamento di parole, gesti, logiche umane, persino troppo umane, in cui la violenza, l'istinto cieco e primitivo alla sopravvivenza, l'assenza di valori dominano incontrastati. Perché allora questo testo drammaturgico, scritto da Valle-Inclán nel 1919, si intitola Divine parole?
La scena è delimitata da un grande rettangolo semibuio coperto di fango - elemento fortemente simbolico - delimitato dalla parte opposta alla platea da una sorta di stanza aperta e luminosa, sulla cui parete sono appese alcune immagini sacre. Entra il scena il primo personaggio, il sacrestano, che per raggiungere quel luogo candido e pulito senza imbrattarsi deve attraversare in lunghezza tutta la scena, ovvero il mondo, la vita di strada, le periferie dell'esistenza. Cerca di farlo appoggiando tavole e mattoni, ma l'impresa è ardua, anche perché a intralciare il suo cammino c'è Séptimo Miau, figura che, all'opposto, di quel fango sembra costituita, incarnazione fisica e al tempo stesso rappresentazione metafisica del male, della tentazione, dell'odio.
Una voce narrante informa che ci troviamo in un paesino, dove sorgono una chiesa e un cimitero - e così la morte si affaccia subito, mentre del prete che pure dovrebbe operare in quella chiesa e di cui il nostro personaggio dovrebbe essere il sacrestano non c'è traccia, ne ve ne sarà fino alla fine. Segno di un silenzio, una lontananza, un'assenza di Dio?
Ecco entrare in scena una madre che trascina sul fango una carrozzina in cui dorme un bambino deforme. Appena la madre muore, attorno a quello che tutti chiamano il mostro si scatena una vera e propria guerra, che mette tutti contro tutti, famiglie contro famiglie, fratelli contro fratelli, per la semplice ragione che portare in giro quella carrozzina permette di raccattare qualche soldo con l'elemosina. La natura umana si svela qui infinitamente avida, preoccupata unicamente della propria sopravvivenza, del denaro. Si scatenano l'odio, l'invidia, la gelosia - in uno scenario da homo homini lupus est - e la lussuria, la ricerca del piacere edonistico, del sesso come tradimento e perdizione: lo sa bene l'avvenente moglie del sacrestano, che non ha scrupoli a tradire il marito.
È un'umanità abbietta, in preda agli istinti più barbari, incapace di elevarsi da una lotta primordiale per la sopravvivenza, quella a cui danno forma Valle-Inclán e Michieletto. Il fango che tutto copre e tutti sporca diventa la metafora della stessa condizione umana, dell'impossibilità dell'innocenza, dell'annichilimento di ogni dignità e valore. La redenzione sembra impossibile, un sogno dimenticato.
Perché, allora, Divine parole?
Verso la fine dei tre giorni in cui si svolge l'azione, la tensione drammatica diventa parossistica: l'intera comunità di questi "ultimi" è raccolta attorno al sacrestano che, coltello alla mano, sembra volersi fare giustizia, o meglio vendetta, contro la moglie infedele, istigato dal solito Séptimo.
Ma accade qualcosa di imprevisto e imprevedibile: il sacrestano ferma la mano che stringe il coltello e pronuncia le parole evangeliche "Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Le ripete più volte: è l'irruzione di una logica diversa, sconosciuta, in quel mondo dominato dall'odio e dall'istinto; è l'apparizione di un sentimento nuovo, rivoluzionario, potente e fragile insieme; sarà, forse, un nuovo inizio.
È stato durissimo per il sacrestano far tacere l'onda di violenza che sale nel suo cuore per dare voce a un barlume insospettabile di una via alternativa alla vendetta: ha dovuto affrontare e sconfiggere Séptimo, il diavolo in persona, in un corpo a corpo che evoca la lotta biblica di Giacobbe con il Dio-Angelo, solo che qui l'uomo deve affrontare il male che è in lui e fuori di lui.
Quel gesto, quelle parole danno di colpo e inaspettatamente fiato e speranza a quel bisogno di elevazione, di una dimensione spirituale che è la cifra della lettura che il regista ha dato al testo. Tema che è giocato e sviluppato tutto per contrasti, narrativi, scenici, musicali: il fango e il candore della stanza, la luce e il buio, l'odio e infine il perdono come scintilla di una possibilità diversa. Le stupende musiche (Myssa Syllabica di Arvo Pärt, il Miserere di Allegri e di Gorecki, Agnus Dei di Samuel Barber, In Paradisum dal Requiem di Fauré) svolgono un ruolo centrale in questa contrapposizione esasperata: per tutto lo spettacolo, esprimono il bisogno insopprimibile di recuperare l'innocenza, di far tacere l'istinto, di elevarsi dalla condizione di barbari, stagliandosi contro il fango, il buio, la violenza che governano anche quest'angolo di mondo.
Divine parole è uno spettacolo duro, spietato, visionario che, denunciando l'abiezione morale in cui possiamo sempre precipitare, evoca e dà sostanza al bisogno inalienabile di spiritualità, di "divine parole", senza il quale la nostra esistenza è fango.
Gli attori (una menzione per Fausto Russo Alesi, Marco Foschi, Sara Zoia e Federica Di Martino) assecondano con bravura le intenzioni del regista Michieletto, così come le scene di Paolo Fantin, le luci di Alessandro Carletti e i costumi di Carla Teti danno spessore e visibilità concreta alla sua interpretazione del testo. La visione dello spettacolo è consigliata soltanto a un pubblico maturo.
DOVE & QUANDO
Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 30 aprile 2015
Divine parole di Ramón María del Valle-Inclán
traduzione Maria Luisa Aguirre d’Amico
regia Damiano Michieletto
scene Paolo Fantin
costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti
Personaggi ed interpreti: Fausto Russo Alesi, Marco Foschi, Lucia Marinsalta, Sara Zoia, Bruna Rossi, Federica Di Martino