La storia del tennis ha fissato un appuntamento con Novak Djokovic alle 22 italiane del 12 settembre 2021. L’unico ostacolo tra lui e il Grande Slam, il successo più prestigioso che premia il più continuo e il più completo e che si assegna solo quando nasce uno abbastanza forte da poterselo giocare, è la finale Us open da disputare contro Daniil Medvedev.
Psicologicamente funziona davvero come in certi disegni dell’umorista argentino Mordillo, dove si vedono due omini con il nasone sfidarsi a tennis in un campo sull’orlo del baratro, sull’altipiano in cima a una rupe o sul tetto di un grattacielo largo appena più del campo senza protezioni: di solito si sporgono a cercare le palline cadute giù, ma si intuisce che sanno di rischiare almeno altrettanto di cadere loro stessi. Trattandosi di New York rende di più la versione con grattacielo, ma il concetto è identico: la posta in gioco è perdere, che in casi così equivale a cadere nel burrone del rimpianto. Di diverso c’è che sul campo in quota di Mordillo si è soli, sul campo di Flushing Medows invece si sta al centro di un catino che contiene il più grande stadio del tennis all’aperto mai costruito al mondo, con 23.771 posti a sedere, più un numero incalcolabile di telespettatori sparsi per il pianeta. Un aspetto che alza, se possibile, ulteriormente la posta psicologica e sociologica della faccenda.
In questo lo sport d’alto livello è unico: ti mette davanti all’occasione della vita, all’appuntamento con la storia, qui e ora come null’altro al mondo, sotto milioni di sguardi, e chiama in causa tutto di te, altro che sfaccendati in mutande dietro a una pallina.
Così è stato per Novak Djokovic in finale a New York, a una partita dalla realizzazione del Grande Slam, l’impresa di vincere i quattro più importanti tornei di tennis nell’arco della stessa stagione, riuscita soltanto a Donald Budge nel 1938 e due volte all’australiano Rod Laver, l’ultima nel 1969. Solo altri due tennisti Jack Crowford e Lew Hoad se la sono giocata al quarto torneo come Djokovic, perdendo.
Si spiega con tutto questo la finale strana, persa con un triplo 6-4 da un Nole Djokovic che improvvisamente non sembrava più Djokovic, l’highlander che non esce mai dal campo, che anche quando va sotto risorge, che non cambia mai espressione – salvo qualche esplosione rara e recente di rabbia, che fosse già la pressione che montava? – che si gioca ogni game fino in fondo come se non ci fosse un domani, per solito con il pubblico tutto contro. Il fatto è che nella notte di New York davvero il domani non ci sarebbe stato, perché Djokovic, vecchia volpe, è il primo a sapere che a 34 anni, mentre ragazzi terribili attorno crescono – Medvedev ma non solo – un treno così – che per 52 anni non è passato - difficilmente ripasserà. Ed è un treno che porta molto più lontano di una partita e di un torneo da vincere: porta alla storia dello sport come la racconteranno di qui in poi, avrebbe portato in caso di vittoria a scollarsi di dosso definitivamente i due rivali di sempre Roger Federer e Rafael Nadal. Era la prima volta nella storia del tennis che una rivalità a tre dominava un quindicennio, lasciando le briciole al resto del mondo, senza però arrivare a definire il migliore dei tre. Il filo di lana che, tagliato, avrebbe staccato gli altri due, Novak Djokovic lo aveva alla fine della partita giocata nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2021.
Avrà certamente provato, Djokovic, a raccontarsi che si trattava solo di giocarsela come una partita tra le tante, ma dentro un demone, che non è riuscito a mettere a tacere, gli ricordava che non lo era. E una tensione che non gli ricordavamo ha avuto ragione di lui, che ha tremato come non aveva tremato mai in anni recenti – se non forse a Tokyo 2020 che di questa rincorsa era l’antipasto –, nel suo lungo regno di numero uno del tennis mondiale. Ci ha messo molto la solidità del numero due del mondo, il 25enne Daniil Medvedev, che non ha sbagliato niente e giocava col fiato leggero di chi ha molto meno da perdere, ma ci ha messo di più Novak Djokovic che – per una volta con il pubblico tutto per lui - ha sbagliato gesti che non sbaglierebbe mai, scoprendosi umano come forse aveva dimenticato di essere. Alla storia passerà lo stesso, ma dovrà dividerla per sempre con Roger Federer il genio e con Rafa Nadal il mastino, resterà definitivamente un trono per tre. Nessuno dica, in questi casi, che è solo un gioco, pura questione di tecnica e corpi. Magari fosse così semplice: è l’incontro con l’abisso dentro di sé che chiede di sporgersi e guardare giù.