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venerdì 13 settembre 2024
 
SCIENZA
 

Per la prima volta una cura dal DNA modificato. Ecco di cosa si tratta

17/11/2017  A Oakland, in California, il DNA di un uomo è stato modificato per la prima volta direttamente all’interno del suo corpo, con l’obiettivo di curare una malattia metabolica. Se dovesse rivelarsi efficace, la tecnica potrebbe aprire la strada alla cura di circa diecimila patologie causate da una mutazione genetica

Si saprà solo fra tre mesi se il trattamento è riuscito, ma di sicuro la tecnica è rivoluzionaria: per la prima volta nella storia, il DNA umano è stato modificato direttamente nel corpo di un paziente, Brian Madeaux, un americano di 44 anni, affetto da una grave malattia metabolica (la sindrome di Hunter) che, oltre ad essergli già costata oltre venti interventi chirurgici, lo lega a un’aspettativa di vita incerta, ma comunque ridotta e sempre appesa ad un filo.

Forbici molecolari

Sull’uomo sono state sperimentate le cosiddette nucleasi a dita di zinco, della sorta di forbici molecolari in grado di individuare e tagliare una specifica porzione di DNA in modo da sostituire un gene difettoso con un altro funzionante. «Fino ad oggi, interventi come questo sono sempre stati condotti in vitro, nel senso che il “taglia e cuci” sui geni veniva effettuato in laboratorio, alterando le cellule in provetta prima di reimpiantarle nel paziente», spiega la professoressa Federica Carla Sangiuolo, professore associato di Genetica Medica presso l’Università degli Studi Tor Vergata di Roma. «In questo caso, invece, si è intervenuti direttamente sull’organismo con un metodo sofisticato, che se dovesse rivelarsi efficace potrebbe aprire la strada alla cura di tutte le malattie causate da una mutazione genetica, di cui si conosce la sequenza malata. Parliamo di circa diecimila patologie».

In cosa consiste

Gli scienziati hanno “addestrato” un virus, ovviamente inattivato e reso innocuo, affinché – una volta iniettato in vena, in miliardi di copie – raggiungesse le cellule del fegato e rilasciasse al loro interno le informazioni necessarie per costruire specifiche molecole (chiamate zinc fingers, dita di zinco), capaci di identificare un punto preciso del DNA e correggere il difetto genetico, responsabile della malattia. Perché proprio il fegato? Perché le sue cellule sono efficientissime fabbriche di proteine ed è sufficiente istruirne solo l’1 per cento per mettere l’intero organismo in condizione di utilizzare il gene correttivo. «Non si tratta di una tecnica esente da rischi», tiene a sottolineare la professoressa Sangiuolo, «perché il taglio del DNA potrebbe non avvenire nel punto desiderato, determinando danni più o meno importanti o magari introducendo mutazioni fuori bersaglio, tutti aspetti difficili da prevedere».

Questione etica

Dunque, si tratta di un trattamento sperimentale, a cui Brian Madeaux si è sottoposto volontariamente, pur sapendo che – nella migliore delle ipotesi – il beneficio sarà relativo, perché i danni già subiti dal suo organismo non regrediranno. Eppure ha voluto assumersi tutti i rischi, nella speranza di trarre comunque beneficio dalla cura e, nello stesso tempo, aiutare altre persone nel mondo. «Al di là del caso specifico, la genetica va sempre correlata alla tutela della singola persona, intesa nella sua interezza e in tutto il suo valore», commenta la professoressa Antonina Argo, docente di Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Palermo, esperta di Bioetica e Biotecnologie mediche e forensi. «Posto che l’aspetto terapeutico, e quindi di un’eventuale guarigione, ha un peso essenziale nella scelta di qualsiasi terapia, ogni modifica della propria individualità potrebbe comunque diventare un abuso e rappresentare una privazione di altri diritti, come quello della libertà. Quindi, strumenti come questo andranno sempre concordati dai medici con l’assoluto consenso del singolo, minimizzando anche i rischi e i possibili eventi avversi».

 

Limiti da considerare

A questo si aggiunge un’ulteriore preoccupazione, legata al fatto che queste tecniche possano un giorno essere utilizzate non soltanto come terapia delle cellule somatiche (ossia dei pazienti affetti da malattie genetiche), ma anche su quelle germinali (spermatozoi o ovociti), che consentirebbero la correzione del DNA anche nelle cellule embrionali o nelle cellule uovo, dando origine a neonati geneticamente modificati, specie nei Paesi dove i controlli sugli esperimenti di ingegneria genetica sono facili da superare. «La “genetizzazione” della medicina spalanca inevitabilmente le porte della biotecnologia», conclude la professoressa Argo. «A mio parere, responsabilità e libertà del ricercatore sono sempre indissolubilmente collegate e devono mirare a preservare la dignità della persona, sfuggendo alla retorica miracolistica».

 

 
 
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