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martedì 18 marzo 2025
 
TRA FICTION E REALTÀ
 

"Così a Lodi, ho vissuto il periodo del Covid". La storia vera nel racconto del medico che ha ispirato Fanti

26/01/2022  Pierdante Piccioni, il vero Doc, lavorando a Lodi, si è trovato fin dalla prima ondata nell'epicentro della pandemia. Ci ha raccontato come sono andati nella sua vita questi due anni da cui Doc - Nelle tue mani 2 non ha potuto prescindere

Adesso che la serie ispirata alla sua storia è alla seconda tornata Pierdante Piccioni è Doc per tutti, i suoi pazienti sanno infatti che è lui la persona vera cui è ispirata «con inevitabili aspetti romanzati», la storia di Andrea Fanti, il popolarissimo medico protagonista di Doc nelle tue mani, interpretato da Luca Argentero.

Anche Piccioni lavorando a Lodi in questi due anni si è trovato dalla prima ora sul fronte più caldo della pandemia, di cui la serie, pur spostata al ritorno alla normalità, in qualche modo tiene conto: «Come nella prima serie, andata imprevedibilmente in onda durante il lockdown, la situazione ha dato un significato particolare a quel sottotitolo: “nelle tue mani”, così anche nella seconda serie hanno pesato le coincidenze. La sceneggiatura di Doc-2 precedeva la pandemia, vi avevo partecipato come consulente medico: molti dei casi complicati e romanzati che ci sono dentro sono o casi miei o casi che ho incontrato confrontandomi con colleghi dell’Academy of Emergency Medicine and Care, di cui faccio parte per averla co-fondata nel periodo della mia vita di cui ho perso la memoria (12 anni di buco nero tra il 2001 e il 2013 in seguito a un incidente stradale avuto nel 2013 ndr)».

Non era calcolato che Doc 2 parlasse di Covid né che fosse la prima serie televisiva al mondo a farci i conti: «C’era un po’ di preoccupazione perché si temeva che la gente non ne potesse più di Covid, si è scelto di non fare del virus il protagonista della serie ma era evidente che in un ipotetico ospedale Ambrosiano, a Milano, non si poteva prescindere del tutto da quello che chi ha fatto il medico in questi anni ha vissuto, come su un fronte della prima guerra mondiale, facendo ogni giorno la conta di morti e feriti. Sarebbe stato un’offesa ai morti tacerlo».

Gli ascolti dicono che per quanto si sia tutti sfiniti dalla pandemia Doc funziona ancora. Anche Piccioni ogni giovedì sera si accomoda, come tanti, sul divano da spettatore, anche se da un punto di vista particolare: «la vivo con un lieve imbarazzo perché – al di là delle vicende sentimentali nella realtà molto lineari, ndr (ride quando glielo facciamo notare) – quella storia è comunque la mia e non è sempre facilissimo ritrovarsela davanti così; ma alla fine prevale l’orgoglio perché le persone, pazienti compresi, mi dicono che guardare Doc è “terapeutico” e in questo senso mi sembra di fare il dottore due volte».

Occorre fare una premessa: quando ha ripreso l’idoneità per fare il primario Pierdante Piccioni è andato a dirigere il Pronto Soccorso di Codogno – il primo travolto in Europa dalla pandemia – tra il 2015 e il 2016. Pur assegnato sempre a Lodi, da dove proveniva, aveva chiesto di andare lì perché gli veniva più facile lavorare con persone nuove anziché con quelle che condividevano tra loro i ricordi che lui non aveva più. Un anno e qualcosa dopo aveva chiesto di essere assegnato a un ruolo diverso, meno adrenalinico ma più sociale: «Dico spesso scherzando che l’esperienza di essere passato dall’altra parte della barricata, da medico a paziente, mi ha fatto fare un corso di specializzazione in pazientologia. Quel master all’università della vita dura ancora: sono medico, ma resterò per sempre anche un paziente, io dico, parafrasando Guerre stellari perché l’autoironia salva, che sono passato al lato oscuro. Questa esperienza mi ha portato prendere coscienza dell’esigenza che c’è per il sistema di farsi carico del collegamento con l’esterno dell’ospedale all’uscita dalla fase acuta: la struttura con cui lavoro si chiama cabina di orientamento, ne fanno parte medico, psicologo, assistente sociale, in sostanza mi occupo di decidere se una persona in ripresa da una malattia possa andare direttamente a casa, se abbia bisogno di altra assistenza, a quale struttura o aiuto affidarla a seconda della sua condizione».

Questo era il lavoro che Pierdante Piccioni stava facendo nel febbraio 2020 quando la parte di Lombardia compresa tra Codogno, Lodi, Bergamo, Cremona, Pavia è diventata il primo epicentro dell’epidemia da Covid-19 al di fuori della Cina. Da allora lo fa in prevalenza per pazienti Covid: «Se per esempio ho un paziente uscito dalla fase acuta del Covid ma ancora positivo: devo trovargli una soluzione adeguata perché non può andare a casa se vive con una moglie ottantenne negativa che potrebbe contagiare. Non è ancora finita, stiamo ancora leccandoci le ferite e non so per quanto ne avremo. Tra familiari, colleghi e amici, pazienti esclusi, nella prima ondata ho perso per il Covid 11 persone cui davo del tu; un altro amico, no-vax, lo abbiamo sepolto pochi giorni fa».

Il Covid è la malattia dell’isolamento, il personale sanitario deve farsi carico della relazione con familiari che non possono entrare, della solitudine dei pazienti isolati, chi come Piccioni è stato anche dall’altra parte della barricata - «la perdita di memoria è una terribile esperienza di solitudine» - sa quanto conti per chi sta male non poter avere persone vicine: «Sia benedetto lo smartphone una volta tanto, in questo dramma ci ha salvato, abbiamo usato gli smartphone per far vedere a casa un’ultima volta persone che se ne stavano andando o per comunicare che stavano meglio, per ricostruire un tessuto relazionale seppur mediato. Serve equilibrio, saggezza, ma la tecnologia usata bene serve, non può essere santificata un giorno e demonizzata l’altro, altrimenti facciamo come con i medici: quando tornavo a casa con l’auto di servizio con scritto Asst Lodi durante il lockdown mi applaudivano dai balconi, non posso essere diventato adesso un delinquente del quale non ci si può fidare, minacciato, - è capitato -, al grido di “Farai una brutta fine se continui a fare il medico vaccinatore”».

Chi ha letto la storia vera di Doc, sa che l’esperienza avuta da paziente ha cambiato il modo di lavorare, forse negli approcci contrapposti di Fanti e nella sua attuale “rivale” Cecilia ci sono una parte del medico che è stato prima e di quello che è diventato dopo: «Me lo dicono gli altri che sono diventato più empatico, i collaboratori di allora ancora adesso mi prendono in giro dicendomi: “Se avessimo saputo che saresti uscito così ti avremmo dato noi una botta in testa molto prima”. Detto questo, anche qui serve equilibrio: si può fare del male sia nell’essere troppo empatici sia nell’esserlo troppo poco, sono due facce dell’essere medico e occorre capire che una cosa non esclude l’altra, anche Fanti e Cecilia dovranno fare i conti con questo».

Vien da chiedersi se anche l’esperienza traumatica della pandemia vissuta da medici in prima linea lascerà nella realtà mutamenti di approccio in chi l’ha contrastata: «Cambiare completamente paradigma nell’approccio con i pazienti no, non direi. Quello che ha insegnato a me è stato tornare ai fondamentali: la prima tappa di un buon medico è ascoltare, se non stai zitto non ascolti il paziente».

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