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lunedì 05 giugno 2023
 
 

Dom Luciano, il vescovo samaritano

02/12/2014  Gesuita, a capo della diocesi di Mariana, presidente della Conferenza episcopale brasiliana. Alla sua morte, il cardinal Martini disse che era veramente un santo, un uomo dalla carità eroica. L'amicizia con il Sermig e con il suo fondatore, Ernesto Olivero.

Da sinistra: il vescovo gesuita brasiliano dom Luciano Mendes de Almeida, papa Giovanni Paolo II, Ernesto Olivero del Sermig.
Da sinistra: il vescovo gesuita brasiliano dom Luciano Mendes de Almeida, papa Giovanni Paolo II, Ernesto Olivero del Sermig.

«In lui ho visto la nuova Chiesa del Concilio e di Papa Francesco». Così padre Bartolomeo Sorge racconta dom Luciano Mendes de Almeida, il gesuita vescovo di Mariana che fu presidente della Conferenza episcopale brasiliana dal 1979 al 1994 e per cui è stata avviata la causa di beatificazione nel 2011. Lo dice alla presentazione di “Due amici”, un libro scritto a quattro mani dal vescovo brasiliano e dal fondatore del Sermig Ernesto Olivero. È la storia di un’amicizia intima, cresciuta in 444 incontri tra il 1988 e il 2006, l’anno della morte di dom Luciano, che pochi giorni prima di spirare, scrisse sul diario di Olivero: «Ernesto, continua ad essere il mio migliore amico».

«In contesti diversi, a Torino e in Brasile, entrambi – spiega padre Sorge ­– hanno messo in pratica quello che oggi dice il Papa: una Chiesa mai chiusa, con le porte aperte anche di notte, una Chiesa povera per i poveri, samaritana e in stato di servizio». Nel libro, in cui i due amici si raccontano l’un l’altro, emerge la grandezza di quello che molti chiamavano «padre piccolo» per il suo corpo debole, zoppicante, apparentemente dimesso, ma – nelle parole di Olivero – «un Francesco d’Assisi per la sua bontà e un filosofo come Platone per il suo sapere». Alla sua morte, il cardinal Martini disse che «è veramente un santo, un uomo che ha vissuto una carità eroica, senza pensare mai a sé, sempre pensando agli altri». I due gesuiti si conoscevano bene e condivisero lunghi viaggi in Giappone, Corea e India. In uno di quei viaggi, ad un gruppo di turisti che gli chiedevano delle indiscrezioni sulla possibilità che diventasse Papa, Martini rispose prontamente che in realtà il futuro pontefice «occupava la stanza 378», quella dell’ignaro confratello. Di quel viaggio, nel libro, il vescovo brasiliano ricorda invece l’emozione per l’incontro con un lebbroso, mentre il cardinal Hummes, colui che al momento dell’elezione disse a Bergoglio «ricordati dei poveri» suggerendogli il nome di Francesco, sottolinea di dom Luciano «la pura carità verso il Signore e verso il prossimo, specialmente verso i vinti della terra, i poveri, gli affamati, gli esclusi».

Capace di amare le cose semplici (la caratteristica firma nelle lettere agli amici era un disegno stilizzato di un omino con un fiore in mano), non distoglieva lo sguardo da quelle complesse: i problemi dell’acqua, della terra, dei popoli indigeni e dei bambini di strada. La chiave della sua vita era in una domanda abituale – «Posso aiutare, posso servire?» – ripetuta ogni volta che incontrava qualcuno, che fosse il povero all’angolo della strada o una persona importante e potente. In Brasile, che lui definiva «una nazione ricca con una distribuzione quasi criminale delle risorse», Mendes de Almeida visse la stessa Chiesa dei poveri di dom Helder Camara e monsignor Romero. Il primo, arcivescovo di Olinda e Recife, era amico personale sia di dom Luciano che di Ernesto Olivero (nel libro, ne parlano nel brano “Due amici + uno”), mentre del vescovo salvadoregno dom Luciano concelebrò i funerali, durante i quali l’esercito iniziò a sparare sulla folla inerme.

Eppure, per il vescovo brasiliano la conversione nell’incontro con i poveri era avvenuta a Roma, dove aveva studiato nella Compagnia di Gesù e nel febbraio del 1956 aveva visto la prima neve della sua vita. Dall’anno precedente, aveva iniziato a frequentare il Gabelli, in via di Porta Portese, un istituto per la correzione dei minorenni, in cui scontavano la pena duecento giovani. Si chiedeva: «Come posso fermarmi, studiare, laurearmi, avere tutte le possibilità di una preparazione quasi privilegiata e allo stesso tempo sapere che questi giovani sono chiusi fra mura altissime, senza vedere la luce del sole, con guardiani che picchiano frequentemente quelli che hanno atteggiamenti aggressivi?». Lo colpì in particolare che «nella Città santa di tutto il mondo cristiano», uno di loro fosse legato mani e piedi, nudo, sopra un tavolo di acciaio, e lasciato una notte in una stanza con le finestre spalancate. Al mattino dopo era morto per il freddo. Gli anni al Gabelli, il catechismo per cui era costretto a trovare parole diverse da quelle abituali – raccontava – «mi hanno poi permesso di aprirmi ad altre esperienze analoghe in Brasile». La vocazione sacerdotale era invece nata fin da piccolo. Già a 6 anni, guardava in alto: «Voglio essere prete e aviatore!» disse alla Prima Comunione.

La sua famiglia gli trasmise la concretezza della fede. Al padre, che aveva molto sofferto per il venir meno dell’amicizia di un collega di lavoro, una sera chiese: «Hai perdonato quella persona che ti ha fatto tanto soffrire?». Guardandolo negli occhi, gli rispose: «Ma figlio, tu sai che io prego sempre recitando il Padre Nostro». Tra le parole che più spesso tornano nella vita di dom Luciano – e sembra di sentir parlare Papa Francesco – ci sono «misericordia» e «umiltà». «Mi viene facile pulire per terra o raccogliere un pezzo di carta, perché gliel’ho visto fare», racconta Olivero, che, la prima volta che si diedero appuntamento alla Stazione di Torino, non lo riconobbe perché si aspettava «il presidente della Conferenza episcopale brasiliana in pompa magna» e trovò invece «un semplice prete che non si distingueva dagli altri passeggeri». È l’umiltà che lo portava ad ammettere di addormentarsi talvolta recitando il rosario: «È la preghiera che mi accompagna, si può dire, in ogni momento della vita. Non sempre con la stessa attenzione, con la stessa intensità, ma sempre con grande amore. A volte mi addormento pregando il rosario». E aggiungeva: «Ognuno lo dice nel modo che lo Spirito gli insegna; io lo dico pensando al mondo intero».

Si spense dopo una dolorosa agonia il 27 agosto 2006, nello stesso giorno in cui, 7 anni prima, era morto Camara. «Rannicchiato ma felice», dice Ernesto Olivero, che gli fu accanto negli ultimi momenti con gli amici della Fraternità del Sermig. Dom Luciano, che soffriva per il dolore, fino all’ultimo chiese un miracolo di guarigione al Padre: non per sé, però, ma per un altro malato.

 
 
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