Da sinistra: il vescovo gesuita brasiliano dom Luciano Mendes de Almeida, papa Giovanni Paolo II, Ernesto Olivero del Sermig.
«In lui ho visto la
nuova Chiesa del Concilio e di Papa Francesco». Così padre
Bartolomeo Sorge racconta dom Luciano Mendes de Almeida, il gesuita
vescovo di Mariana che fu presidente della Conferenza episcopale
brasiliana dal 1979 al 1994 e per cui è stata avviata la causa di
beatificazione nel 2011. Lo dice alla presentazione di “Due amici”,
un libro scritto a quattro mani dal vescovo brasiliano e dal
fondatore del Sermig Ernesto Olivero. È la storia di un’amicizia
intima, cresciuta in 444 incontri tra il 1988 e il 2006, l’anno
della morte di dom Luciano, che pochi giorni prima di spirare,
scrisse sul diario di Olivero: «Ernesto, continua ad essere il mio
migliore amico».
«In contesti diversi, a Torino e in Brasile,
entrambi – spiega padre Sorge – hanno messo in pratica
quello che oggi dice il Papa: una Chiesa mai chiusa, con le porte
aperte anche di notte, una Chiesa povera per i poveri, samaritana e
in stato di servizio».
Nel libro, in cui i
due amici si raccontano l’un l’altro, emerge la grandezza di
quello che molti chiamavano «padre piccolo» per il suo corpo
debole, zoppicante, apparentemente dimesso, ma – nelle parole di
Olivero – «un Francesco d’Assisi per la sua bontà e un filosofo
come Platone per il suo sapere». Alla sua morte, il cardinal Martini
disse che «è veramente un santo, un uomo che ha vissuto una carità
eroica, senza pensare mai a sé, sempre pensando agli altri». I due
gesuiti si conoscevano bene e condivisero lunghi viaggi in Giappone,
Corea e India. In uno di quei viaggi, ad un gruppo di turisti che gli
chiedevano delle indiscrezioni sulla possibilità che diventasse
Papa, Martini rispose prontamente che in realtà il futuro pontefice
«occupava la stanza 378», quella dell’ignaro confratello. Di quel
viaggio, nel libro, il vescovo brasiliano ricorda invece l’emozione
per l’incontro con un lebbroso, mentre il cardinal Hummes, colui
che al momento dell’elezione disse a Bergoglio «ricordati dei
poveri» suggerendogli il nome di Francesco, sottolinea di dom
Luciano «la pura carità verso il Signore e verso il prossimo,
specialmente verso i vinti della terra, i poveri, gli affamati, gli
esclusi».
Capace di amare le cose semplici (la caratteristica firma
nelle lettere agli amici era un disegno stilizzato di un omino con un
fiore in mano), non distoglieva lo sguardo da quelle complesse: i
problemi dell’acqua, della terra, dei popoli indigeni e dei bambini
di strada. La chiave della sua vita era in una domanda abituale –
«Posso aiutare, posso servire?» – ripetuta ogni volta che
incontrava qualcuno, che fosse il povero all’angolo della strada o
una persona importante e potente.
In Brasile, che lui
definiva «una nazione ricca con una distribuzione quasi criminale
delle risorse», Mendes de Almeida visse la stessa Chiesa dei poveri
di dom Helder Camara e monsignor Romero. Il primo, arcivescovo di
Olinda e Recife, era amico personale sia di dom Luciano che di
Ernesto Olivero (nel libro, ne parlano nel brano “Due amici +
uno”), mentre del vescovo salvadoregno dom Luciano concelebrò i
funerali, durante i quali l’esercito iniziò a sparare sulla folla
inerme.
Eppure,
per il vescovo brasiliano la conversione nell’incontro con i poveri
era avvenuta a Roma, dove aveva studiato nella Compagnia di Gesù e
nel febbraio del 1956 aveva visto la prima neve della sua vita.
Dall’anno precedente, aveva iniziato a frequentare il Gabelli, in
via di Porta Portese, un istituto per la correzione dei minorenni, in
cui scontavano la pena duecento giovani. Si chiedeva: «Come
posso fermarmi, studiare,
laurearmi,
avere tutte le possibilità di una preparazione
quasi
privilegiata e allo stesso tempo sapere che questi giovani sono
chiusi fra mura altissime, senza vedere
la
luce del sole, con guardiani che picchiano frequentemente
quelli
che hanno atteggiamenti aggressivi?».
Lo colpì in particolare che «nella Città santa di tutto il mondo
cristiano», uno di loro fosse legato mani e piedi, nudo, sopra un
tavolo di acciaio, e lasciato una notte in una stanza con le finestre
spalancate. Al mattino dopo era morto per il freddo. Gli anni al
Gabelli, il catechismo per cui era costretto a trovare parole diverse
da quelle abituali – raccontava – «mi
hanno poi permesso di aprirmi ad altre esperienze analoghe in
Brasile».
La
vocazione sacerdotale era invece nata fin da piccolo. Già a 6 anni,
guardava in alto: «Voglio
essere prete e aviatore!»
disse alla Prima Comunione.
La sua famiglia gli trasmise la
concretezza della fede. Al padre, che aveva molto sofferto per il
venir meno dell’amicizia di un collega di lavoro, una sera chiese:
«Hai
perdonato quella persona che ti ha fatto tanto soffrire?».
Guardandolo negli occhi, gli rispose: «Ma figlio, tu sai che io
prego sempre recitando il Padre Nostro».
Tra
le parole che più spesso tornano nella vita di dom Luciano – e
sembra di sentir parlare Papa Francesco – ci sono «misericordia»
e «umiltà». «Mi viene facile pulire per terra o raccogliere un
pezzo di carta, perché gliel’ho visto fare», racconta Olivero,
che, la prima volta che si diedero appuntamento alla Stazione di
Torino, non lo riconobbe perché si aspettava «il presidente della
Conferenza episcopale brasiliana in pompa magna» e trovò invece «un
semplice prete che non si distingueva dagli altri passeggeri». È
l’umiltà che lo portava ad ammettere di addormentarsi talvolta
recitando il rosario: «È la preghiera che mi accompagna, si può
dire, in ogni momento della vita. Non sempre con la stessa
attenzione, con la stessa intensità, ma sempre con grande amore. A
volte mi addormento pregando il rosario». E aggiungeva: «Ognuno
lo dice nel modo che lo Spirito gli insegna; io lo dico pensando al
mondo intero».
Si spense dopo una
dolorosa agonia il 27 agosto 2006, nello stesso giorno in cui, 7 anni
prima, era morto Camara. «Rannicchiato ma felice», dice Ernesto
Olivero, che gli fu accanto negli ultimi momenti con gli amici della
Fraternità del Sermig. Dom Luciano, che soffriva per il dolore, fino
all’ultimo chiese un miracolo di guarigione al Padre: non per sé,
però, ma per un altro malato.