Quest’uomo ha qualcosa di magnetico. Devono essere quegli occhi chiari, due luci azzurre che sembrano scrutarti, frugarti qualcosa dentro, mentre sei lì che piuttosto aspetteresti una sua risposta. Forse sono stati la sua arma, per quanto forse non sia la parola giusta, un’arma affiata in anni e anni di esperienza, per guarire le ferite dei ragazzi che tentava di salvare. Forse li ha usati, quegli occhi, per agganciare, dal basso della sua minuta statura, la verità di quelli che si trovava di fronte, interle nostre parole sgrammaticate, scarabocchiate, ma oneste, che vengono dopo aver letto e riletto le piccole via crucis di questo nostro mondo». Per dire che «non tutto è tragedia», e fare qualcosa affinché non si cada nella tentazione di «allargare troppo gli spazi tenebrosi».
Don Antonio, perché un libro sugli adolescenti? «La gente pensa che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli di una volta. Io volevo raccontare invece come anche tra le righe più macabre si aprano piccoli spiragli inaspettati. Il cettarne il dolore, provare a guarirlo. Prima i ventenni tossici, presi per i capelli al parco Lambro con l’ago ancora infilato in vena, poi i giovani più complessi e fragili di oggi, affascinati dalle nuove droghe e deragliati in brutti reati.
Le storie che ha raccolto, le confessioni e le notti in bianco, sono così tante che è incredibile che all’età di 93 anni sia ancora qui, capace di intrappolarti nel suo sguardo e di spostarti qualcosa dentro quando parla. Perché il carisma che emana non viene solo dal suo sguardo ma anche e soprattutto bene è sempre maggiore del male». Ma è vero che i giovani di oggi sono peggio? «Sono solo più fragili. Se sono aggressivi, se fanno cose sbagliate, è perché dentro mancano le fondamenta». Come fa un uomo di 93 anni a capire gli adolescenti di oggi? «Non lo so se li capisco o se quello che penso di capire è solo quello che sento io. Però una cosa la vedo». Che cosa? «I ragazzi di una volta erano pieni di cattiveria. Era una cattiveria che gli veniva dall’uso della sostanza, che gli ammazzava tutto quello che avevano dentro.
Quelli di adesso invece hanno dentro ancora tutto. E se si fidano, si aprono». E quando si fidano? «Quando li ascolti. Io lo dico sempre agli operatori: lasciamoli parlare. Non saltiamo loro addosso con le nostre domande: cosa hai fatto? Perché lo hai fatto?». Però qualcosa va anche detta. Che cosa? «Il punto è avere il coraggio di non avere in testa delle risposte predalle cose che dice. E da come lo fa. Don Antonio Mazzi, fondatore e presidente della comunità di recupero Exodus di Milano, ha appena pubblicato per le Edizioni San Paolo il libro Se grandina a primavera. Amare e educare gli adolescenti (e noi stessi) in un tempo di crisi. Un saggio, scorrevole e diretto, che raccoglie gli articoli che ha scritto negli anni su Famiglia Cristiana: «Di tutto quel lavoro», dice, «ho scelto i pezzi che parlavano di adolescenza».
Una specie di diario «per anime che vogliono cambiare almeno qualcosa, fatto con le nostre parole sgrammaticate, scarabocchiate, ma oneste, che vengono dopo aver letto e riletto le piccole via crucis di questo nostro mondo». Per dire che «non tutto è tragedia», e fare qualcosa affinché non si cada nella tentazione di «allargare troppo gli spazi tenebrosi».
Don Antonio, perché un libro sugli adolescenti? «La gente pensa che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli di una volta. Io volevo raccontare invece come anche tra le righe più macabre si aprano piccoli spiragli inaspettati. Il bene è sempre maggiore del male».
Ma è vero che i giovani di oggi sono peggio? «Sono solo più fragili. Se sono aggressivi, se fanno cose sbagliate, è perché dentro mancano le fondamenta».
Come fa un uomo di 93 anni a capire gli adolescenti di oggi? «Non lo so se li capisco o se quello che penso di capire è solo quello che sento io. Però una cosa la vedo».
Che cosa? «I ragazzi di una volta erano pieni di cattiveria.
Era una cattiveria che gli veniva dall’uso della sostanza, che gli ammazzava tutto quello che avevano dentro. Quelli di adesso invece hanno dentro ancora tutto. E se si fidano, si aprono».
E quando si fidano? «Quando li ascolti. Io lo dico sempre agli operatori: lasciamoli parlare. Non saltiamo loro addosso con le nostre domande: cosa hai fatto? Perché lo hai fatto?».
Però qualcosa va anche detta. Che cosa? «Il punto è avere il coraggio di non avere in testa delle risposte prefissate. Bisogna ascoltare le loro, di domande. E per farlo, bisogna restare umili: l’educatore è sullo stesso piano del ragazzo che ha davanti».
Lei ha cominciato a lavorare coi giovani più di 40 anni fa. Com’è cambiato lei da allora? «I ragazzi dell’ultimo periodo mi hanno reso più umile. Ho meno voglia di vincere. Devo accettare che a volte perdo».
Quando si vince? «Quando un ragazzo va via e l’hai convinto».
Intende: l’hai convinto a fare del bene? «No. Intendo: l’ho convinto a volersi bene.
Perché il loro problema è questo: sono pieni di quei tatuaggi, quelle scritte sul corpo, tutte frasi fatte, ma dentro poche certezze».
C’è qualcosa che non ha mai capito dei ragazzi? «Più che capirli noi, dovremmo aiutare loro a capire sé stessi».
E loro si capiscono? Lo capiscono quello che stanno vivendo, quello che hanno fatto? «A volte qui arrivano ragazzi che hanno fatto cose così brutte che io ho quasi paura che capiscano davvero. Ne ho paura per la loro salute mentale. E quasi, mi ritrovo a sperare che non ci arrivino mai».
Come si relazionano con lei? Che atteggiamento hanno? «I primi anni mi minacciavano. L’eroina li lasciava orfani di loro stessi e loro si difendevano con l’offesa. Questi invece non ti offendono. Urlano un po’ di più, usano parole forti, ma dentro sono fragili». In comunità è passata quella ragazza che all’epoca uccise madre e fratellino, e ora avete quel ragazzo che ha ucciso suo padre.
«Quel ragazzo che ha ammazzato il padre, per esempio, ha paura ad andare in metropolitana. Dice che vuole studiare Teologia ma ha paura di andare all’Università da solo». Quando lei è solo, che pensieri fa? «Che sono stato fortunato a fare questo lavoro. E non perché ho ragionato più degli altri ma perché ho colto le occasioni che mi sono arrivate dalla vita».
Ha cominciato facendo il preside in una scuola vicino al parco Lambro ed è stato lì che si è accorto di cosa stava facendo l’eroina ai ragazzi.
«Pensi che neanche ci volevo venire a Milano. Se avessi seguito la testa non sarei qui».
Ha paura di morire? «Ho paura di soffrire. Di fare una morte sofferente. Ma è un pensiero umano. E non voglio far soffrire chi ho intorno. Però il Padreterno fino ad adesso è stato bravo: ho avuto degli incidenti in macchina, minacce di morte nel parco, un infarto... e sono ancora qui».
Perché si è dedicato così tanto ai ragazzi? «Ho perso il papà che avevo 15 mesi e l’ho vissuta sempre come un’ingiustizia. E se sono diventato prete è stato per la grande mancanza che avevo di una figura paterna. Sono diventato io padre degli altri».
Se non avesse fatto questo, cosa avrebbe voluto fare? «Il musicista. Avrei fatto il conservatorio e suonato l’organo».
Qual è la figura religiosa che le piace di più? San Francesco d’Assisi. Da adolescente era un bel furbo, era un tipo sveglio, si godeva la vita, la sera aveva il suo giro ed era persino il capo. Però ha saputo vivere la fede alla sua maniera: ha vissuto amando».
Che cosa la fa arrabbiare? «La Chiesa di oggi. Certi preti, che sono impiegati dell’impero ecclesia stico e non discepoli di un uomo che amava la strada. Perché Cristo è l’uomo della strada, non delle basiliche. Il Papa lo dice: “Abbiate il coraggio di spalancare le porte e andate per strada”. E a me invece sembra che oggi siamo tornati nel tempio di Gerusalemme, quel tempio che Cristo ha tanto combattuto»