Su un lenzuolo bianco hanno scritto con la vernice rossa «No ai profughi. Paroni a casa nostra». E lo hanno appeso sotto casa del parroco. Succede a Rovolon, un piccolo comune del padovano, conosciuto per i suoi ristoranti. Qui è andata in scena una versione moderna del celebre scontro tra Peppone e don Camillo in salsa veneta.
Ma attorno a che cosa ci si divide sui Colli Euganei? Se accogliere o no, per un tempo limitato, poche mamme con i loro figli in fuga dalla guerra. Da un lato, contrari all’ospitalità, il sindaco Maria Elena Sinigaglia di centrodestra ma sostenuta alle scorse elezioni anche dal Pd; dall’altro, i sacerdoti dell’unità pastorale.
Ma la frattura ha spaccato l’intero Paese.
Cos’è successo? 15 anni fa, le suore lasciarono Rovolon e la parrocchia decise di affidare l’ex asilo all’associazione “Per un sorriso”, che prima ospitava i bimbi di Chernobyl e poi le famiglie dei malati oncologici in cura a Padova. Da un po’ di tempo la struttura era inutilizzata e così, a metà settembre, i tre consigli dell’unità pastorale hanno deciso di rispondere all’appello del Prefetto per ospitare alcuni profughi sbarcati nel Sud Italia. Più precisamente, 5 mamme con figli piccoli, non più di 15 persone. Apriti cielo, per giorni sotto le finestre della parrocchia sono scattate le proteste e gli schiamazzi contro “l’invasione”. Il sindaco appoggiava la protesta, mentre la Lega Nord si fregava le mani invitando a posizioni ancora più dure.
#migliorisipuò | Anche le parole possono uccidere
Mentre salivano i toni, alcuni abitanti hanno scritto ai concittadini chiedendo: «Quale fastidio può provocare qualche bambino che gioca nel bel giardino accanto alla chiesa?». E hanno lanciato una proposta: «Siamo anche disposti ad accoglierli nelle nostre case». A quel punto, il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo si è rivolto alla comunità di Rovolon con queste parole: «Non temete, siate testimoni coraggiosi della carità!. Per noi cristiani, l’accoglienza di fratelli e sorelle nel bisogno è accoglienza del Signore stesso presente nel povero e nel forestiero. “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” dice il Signore».
Giovanna Cappelletto, 57 anni, è l’insegnante di storia che ha scritto la lettera a favore dell’accoglienza: «L’ho mandata a cinque amiche, ciascuna ha parlato con i vicini e nelle botteghe. Le firme sono aumentate, hanno cominciato a telefonarmi e a farmi trovare a casa liste di adesioni. Se la rabbia e la paura sono contagiose, lo è anche la solidarietà!». Oggi Giovanna, insieme al gruppo nato da questo contagio positivo, va a comprare la biancheria per i bambini o il cibo per le ospiti. Sì, perché nel frattempo sono arrivate. Racconta: «Due mamme, una siriana e l’altra etiope, con i loro figli e una ragazza somala di 19 anni. Ci hanno raccontato le loro storie e quanto hanno sofferto». Si sono fermate tre giorni, poi, come fanno quasi tutti i profughi che stanno sbarcando in Italia, sono ripartite verso il Nord Europa, dove hanno parenti e migliori condizioni di integrazione. «Noi intanto aspettiamo le nuove ospiti», dice.
Per don Claudio Zuin, tipico cognome veneto, «ora la situazione va meglio, in molti hanno capito che le paure erano immotivate». Lui è il responsabile dell’unità pastorale e dice che la comunità cristiana è chiamata a vivere l’insegnamento del Papa: «A Lampedusa, ha chiesto: “Dov’è tuo fratello?”. E nell’Evangelii Gaudium, parlando di globalizzazione dell’indifferenza, ha detto che siamo diventati incapaci di provare compassione davanti a un grido di dolore». Per don Claudio, queste donne ci offrono l’occasione di «togliere la maschera». Spiega: «Che Vangelo stiamo professando? Gesù è quella donna somala che scappa dagli orrori della guerra». Cita Sant’Ignazio: «Non basta essere chiamati cristiani, ma bisogna esserlo davvero».
Insieme ai consigli pastorali, don Claudio sta lavorando per accompagnare la sua comunità divisa a un’esperienza di Resurrezione, parlando anche con chi lo contesta, aprendo delle feritoie tra le ferite. Come? «Guardandosi negli occhi; come dice il Papa, dobbiamo tornare a piangere davanti al dramma degli altri. Ecco che allora una mamma siriana che ha visto le bombe distruggere la propria casa, non è più un pericoloso invasore». Anche per don Luca Facco, direttore della Caritas padovana, «è l’incontro tra le persone che vince la paura. In molte strutture inutilizzate delle parrocchie, abbiamo avviato delle microaccoglienze, che non sono invasive ma diventano una possibilità pastorale per far conoscere i migranti». Tra le tante esperienze positive, tra partite di calcio all’oratorio e artigiani veneti che insegnano un mestiere, don Luca ricorda quella del Crocifisso a Padova: ogni domenica, i dieci profughi ospitati vanno, come volontari, a servire nelle mense per i poveri organizzate in altre parrocchie.