«L’attitudine umana più vicina alla grazia di Dio è l’umorismo», ha detto papa Francesco nell’ottobre 2016. E ancora, in chiusura del Giubileo della Misericordia: «Il senso dell’umorismo è una grazia che chiedo tutti i giorni». Papa Francesco ha una visione profonda del sorriso. Una visione che gli viene, forse, anche dalle origini latinoamericane. Il sospetto ci viene parlandone con don Carlo De Marchi, vicario dell’Opus Dei per Roma e il Centro-Sud Italia, nonché grande esperto di buonumore.
«Tra i 25 e i 35 anni ho lavorato nella cooperazione internazionale, viaggiando in tanti Paesi», racconta, «ma è l’America latina il luogo dove ho scoperto che noi europei non sorridiamo mai. Durante una missione, un collega dell’Honduras mi chiese se non stavo bene o ero arrabbiato, perché non sorridevo. Lo avevano notato in tanti, ma io non ci avevo mai fatto caso. Me ne sono reso conto al ritorno in Europa: quanto siamo seri! Non si tratta di ridere sempre, quanto di manifestare la propria umanità». Da qui è cominciata la riflessione di don Carlo, condensata poi nel bel volume La formula del buonumore (Edizioni Ares).
I Papi del Novecento hanno parlato sempre più spesso di «gioia» e «letizia». Parole chiavi per il terzo millennio?
«Fin dall’antichità, la Chiesa ha preso le distanze dagli atteggiamenti volgari dei buffoni. Tuttavia, nelle vite dei santi è sempre presente il sorriso e la gioia. Prendersi troppo sul serio, poi, fa a pugni con il Vangelo: Gesù perde la pazienza solo con gli ipocriti, che nascondono i propri difetti e additano quelli altrui. Penso che nel nostro secolo, segnato da tanta angoscia, parlare di Gesù a partire dalla gioia faccia comprendere come lui possa cambiare le nostre vite, dando un senso anche alla quotidianità più noiosa... quella fatta di lunedì mattina, di visite dal dentista e di parcheggi che non si trovano».
Cos’è il buonumore?
«Quello che sogniamo tutti. Desideriamo avere dentro un sorriso vero, e vedere gente che sorride quando ci incontra. Il buonumore è diffusivo. Ma dobbiamo allenarlo, perché non è spontaneo. Occorre uno sforzo di attenzione, di carità, di apertura agli altri. Sorridere perché gli altri se lo meritano, o ne hanno bisogno. Dovremmo farci l’esame di coscienza su come salutiamo le persone la mattina, appena svegliati o entrando in ufficio, oppure la sera, tornando a casa».
Nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla santità, il Papa scrive che il santo è capace di vivere con «senso dell’umorismo» (n. 122).
«C’è sotto una teologia forte, quella dei frutti dello Spirito Santo. Dio manifesta la sua presenza attraverso la nostra persona, che è unità di anima e corpo, e il sorriso è manifestazione di questa unità. Il Papa ci dice che la santità si manifesta nel concreto, perché saremo giudicati sulle opere di misericordia. Dare un bicchiere d’acqua è una risposta effimera, così come lo è regalare un sorriso... Forse non cambieranno l’esistenza a qualcuno, eppure attraverso questi gesti umili lo Spirito si rende visibile».
Viceversa, continua il Papa, «il malumore non è segno di santità» (Gaudete et exsultate, n. 126).
«Il malumore è un disordine in cui si mescolano la pigrizia, l’intemperanza e una chiusura a Dio e agli altri. Malumore è quando non voglio far entrare una luce in quello che ho dentro. Come dice il Papa, spesso preferiamo leccarci le ferite piuttosto che desiderare la guarigione, perché è più comodo fare la vittima, crogiolandosi nel fastidio. Ma è una comodità triste. E ci rinchiude in un circolo vizioso».
Papa Francesco ha introdotto uno stile ironico e autoironico nella sua predicazione. Un tratto inedito nel papato?
«A volte, quando faccio un’omelia, mi rendo conto di quanta distanza c’è con chi mi ascolta. Ma l’autoironia getta un ponte. Autoironia non significa banalizzare, ma scendere dal piedistallo, mostrare il volto umano anche di noi sacerdoti, raccontando magari una disavventura o una figuraccia. Papa Francesco, parlando della sua esperienza di preghiera, ha confessato di essersi addormentato all’adorazione eucaristica, e che tuttavia si sentiva confortato dallo sguardo di Gesù. Dire una cosa del genere è liberatorio, perché ci spoglia della tensione perfezionistica e ci incoraggia a confidare in Dio nelle nostre debolezze. Questo modo di evangelizzare è un grande dono che Francesco ha fatto alla Chiesa. Un dono che, paradossalmente, dobbiamo prendere sul serio».
Un santo sorridente che le è particolarmente caro?
«Pochi mesi prima di essere eletto dal Conclave, Giovanni Paolo I, il Papa del sorriso, firmò un articolo in cui parlava di monsignor Josemaría Escrivá come del “santo del sorriso quotidiano”. Di lui mi piace ricordare questo episodio. Un giorno don Josemaría si sveglia di pessimo umore. Allora si fa fare una fotografia e dice: “Ne ho bisogno per ricordarmi, in futuro, quanto sono ridicolo quando sono arrabbiato”. Ecco cos’è l’autentica lotta ascetica: non qualcosa di triste, ma uno sforzo positivo e concreto per dare il meglio di sé. Sorridendo».