Meglio fare il chierichetto
piuttosto che il Balilla».
Milano, 1926, parrocchia
di San Pietro in Sala. Armando Lazzaroni
è un ragazzo dell’oratorio e a parlargli
così è il nuovo coadiutore, don Carlo
Gnocchi. Nato a San Colombano al
Lambro (allora in provincia di Milano,
oggi di Lodi) il 25 ottobre 1902, era stato
ordinato sacerdote l’anno prima e,
dopo un breve periodo a Cernusco sul
Naviglio, era approdato in città.
Armando gli dà retta, si fa addirittura
prete. Chi, invece, finisce tra i Balilla è
proprio don Gnocchi, che diventa cappellano
dei giovani fascisti e poi della II
Legione universitaria di Milano. Una
contraddizione? No, il giovane sacerdote
volle frequentare quegli ambienti militaristi
per stare vicino ai suoi ragazzi e
portare anche lì la parola di Dio.
Per lo stesso motivo nel 1941 partì
per il fronte albanese come cappellano
militare degli alpini, nella
divisione Julia: dal
1936 era direttore spirituale
dell’Istituto Gonzaga
di Milano, tanti
suoi studenti indossavano la divisa e
lui li seguì. E dopo l’Albania, la Russia:
nel gennaio 1943 don Gnocchi è tra gli
alpini della Tridentina nella ritirata della
Sacca del Don. Dolore, morte, disperazione.
E una promessa ai soldati morenti:
«Padre, le affido mio figlio
». «Ci penserò io».
Rientrato in Italia, lo fa veramente:
in un doloroso pellegrinaggio
tra i monti dove vivono
le famiglie degli alpini morti in
Russia, rintraccia le loro famiglie,
le aiuta, bada agli orfani. Intanto,
si fa sempre più strada in
lui l’idea di una grande opera di
carità che gli era venuta sulle nevi
della steppa. Deciso a condividere
fino in fondo la vita di chi soffre, aderisce
alla Resistenza, aiuta ebrei e partigiani
a espatriare, finisce in carcere a
San Vittore. Anche in quei mesi continua
a scrivere: articoli, discorsi, libri,
tutti sul tema dell’educazione dei giovani.
Per questo nel 1946 viene nominato
assistente ecclesiastico dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ma
l’incarico gli va stretto e due anni dopo
lo lascia. Il prefetto di Como lo aveva
già nominato direttore dell’Istituto
Grandi Invalidi di Arosio e la sua opera
stava rapidamente prendendo forma.
Don Gnocchi apre la casa agli orfani
degli alpini, poi ai “mutilatini”, i ragazzi
dilaniati dalle bombe inesplose, e ai
“mulattini”, figli di donne italiane e soldati
americani di colore. La svolta della
sua vita ha luogo l’8 dicembre 1945,
quando ad Arosio arriva Bruno Castoldi:
suo padre era morto in Russia e la
mamma non riusciva a mantenerlo. La
sera dello stesso giorno i bambini sono
già 28. Tra di loro c’è anche Paolo Balducci,
il primo mutilatino.
Don Gnocchi si mette a correre:
nel 1948 nasce la Federazione
pro infanzia mutilata, che
nel 1952 diventa Fondazione
pro juventute. Le case si moltiplicano
e accolgono anche i poliomielitici.
Don Gnocchi vuole
il meglio delle cure per i suoi ragazzi,
li avvia al lavoro, cerca di
metterli in grado di reinserirsi
nella società, e soprattutto li fa
crescere nella fede.
I bisogni della Fondazione sono
enormi e lui cerca soldi ovunque,
“spreme” le famiglie ricche ma anche il
Governo, attraverso il suo amico Giulio
Andreotti. Anche in Vaticano ha un sostenitore
entusiasta: Giovanni Battista
Montini, futuro Paolo VI.
Ma nel pieno della corsa un tumore
lo aggredisce e lo porta alla morte. È il
28 febbraio 1956. Il giorno dopo due ragazzi,
Silvio Colagrande e Amabile Battistello,
ricevono le cornee di don Gnocchi,
il cui gesto accelerò l’adozione da
parte del nostro Paese della legge sui
trapianti, che ancora non c’era.
Adesso don Gnocchi diventa beato,
grazie alla guarigione inspiegabile di
Sperandio Aldeni, elettricista bergamasco
che il 17 agosto 1979 sopravvisse a
una scarica da 15 mila volt che avrebbe
dovuto ucciderlo. «Don Carlo salvami!»,
gridò Sperandio. E lui lo ha fatto, ascoltando
ancora una volta il grido di dolore
di chi sperava nel suo aiuto.