Lui la neve l’ha vista di due colori: bianca,
come tutti, e rossa, come i pochi
che sono tornati dall’inferno della ritirata
di Russia. È tra gli ultimi a poterla
raccontare, quella tragedia. Ugo Balzari, ingegnere
milanese di Porta Cicca, ha 90 anni
ma ne dimostra venti di meno. È scattante.
In piena forma. «La cosa più importante», dice,
«è non mandare il cervello in pensione.
Poi, c’è la salute. Vado ancora in montagna».
Controlla gli appunti al computer, prende le
mappe e scioglie i ricordi: «Dal 17 al 26 gennaio
1943 percorriamo a piedi 260 chilometri,
a 40 gradi sottozero». È un alpino, «l’ultimo
milanese vivo del battaglione Edolo. Da
Milano partiamo in 27, torniamo in 4. In tutto,
noi alpini saremmo stati circa 57 mila. Ci
salviamo in 13 mila».
È un’ecatombe. Giovani mandati al macello
dal dittatore che voleva qualche morto per
sedersi al tavolo della pace da vincitore: «Mussolini
e Hitler erano due psicopatici megalomani
e noi dei poveri cristi allo sbaraglio». Balzari
parla della battaglia di Nikolaevka, quando
gli italiani sfondano l’accerchiamento russo
prima di ritirarsi dalla sacca del Don, incalzati
dal nemico, flagellati da un rigido inverno
che decima loro, tedeschi, bulgari, ungheresi
e romeni. Balzari racconta ancora oggi
quel calvario. Lo fa, a futura memoria, nelle
elementari e nelle medie. «Gli insegnanti, alla
fine, mi dicono che i loro alunni non sono
mai così attenti come con me. La “Storia” la
scrivono con i bollettini di guerra. Ma c’è una
storia umana che va raccontata ai più giovani.
Mi sento un “dissacratore della guerra”. I tedeschi,
sui cinturoni avevano la scritta Gott mitt
uns, Dio con noi. No. No. Dio è solo amore,
con la guerra non c’entra niente. E questo vale
per tutti, credenti e atei».
«Dovevi essere fascista, allora, non potevi
sottrarti: balilla, avanguardista e poi militare
». Maggio 1942: Ugo Balzari ha 19 anni e
mezzo, pratica alpinismo e sci. Diventa un alpino,
divisione Tridentina. Lo mandano prima
a Edolo, poi a Torino. «C’è il generale Cavallero.
Partiamo per la Russia con i treni
merci. Arriviamo in Ucraina e camminiamo
per 30 chilometri al giorno, il tutto per 15
giorni filati. Ci definiscono “truppe autotrasportate”.
Lo siamo solo a parole, però. Quando
entriamo nei villaggi russi scopriamo che
chi abita lì è gente come noi, persone normali,
non quei mostri pazzi che ci hanno raccontato.
Ci offrono patate e pomodori».
La campagna di Russia è una pagina tra le
più tragiche di tutto il secondo conflitto
mondiale e quando nell’inverno del ’43 inizia
la ritirata, per gli italiani comincia un’avventura
umana divenuta letteratura grazie
ad autori come Egisto Corradi, Nuto Revelli,
Mario Rigoni Stern, con Il sergente nella neve.
«Lo apprendo dopo, quando la guerra è
ormai finita, che c’è anche lui», dice, sornione.
«Lì siamo solo soldati. Facciamo a piedi
800 chilometri, fino a Gomel. Poi in treno fino
a Brest Litovsk. E, finalmente, a marzo,
rientriamo in Italia».
Uno dei suoi capitani è Giuseppe Prisco,
l’avvocato famoso anche per la passione interista.
Ma c’è un’altra persona che Balzari ricorda
con particolare affetto. «È don Carlo
Gnocchi, cappellano del V reggimento alpini,
beatificato nel 2009. Quando iniziamo la
ritirata, un giorno lo porto in spalla. È la vigilia
di Natale, lo trasporto sugli sci, sul bordo
ghiacciato del Don». Poi c’è la battaglia di
Nikolaevka, l’ultimo sussulto di italiani e tedeschi
prima di uscire dalla sacca. «Per arrivarci
sosteniamo undici combattimenti, un
massacro dietro l’altro. I morti? Meglio contare
i vivi, ci diciamo, si fa prima».
«Don Gnocchi», scrive Balzari negli appunti
che legge nelle scuole, «porta la sua croce
di panno rossa sul cappotto. Niente armi,
non vuole. Lui non può uccidere, nemmeno
per salvarsi. Mors tua vita mea vale solo per
noi». E di don Gnocchi, Balzari ha un ricordo
che seguita a raccontare: «Conquistata Nikolaevka,
don Carlo chiede al colonnello Adami
quattro uomini per ritornare sul campo
di battaglia a benedire i morti. Io sono uno
dei quattro. Ci dice di lasciare gli sci e portare
il tascapane». Partono per un viaggio all’indietro. «È quasi buio. “Ragazzi”, ci dice don
Gnocchi, “sono obbligato a chiedervi tanto
coraggio. Dovete mettere in fila, allineati al
meglio, i corpi dei morti così che io possa benedirli.
Poi, scucite le piastrine di riconoscimento
e mettetele nel tascapane”. È distrutto,
fisicamente e moralmente. A 40 gradi sottozero,
immersi nella neve, tiriamo per i piedi,
per le braccia, per le gambe, per i baveri
ghiacciati, quello che troviamo di uomini.
Don Carlo si trascina da un corpo all’altro in
ginocchio, cercando di fare il segno della croce.
A un certo punto si volta verso di noi:
“Ho finito l’olio santo; userò la neve”. Parla
sottovoce, scuotendo la testa: “Dio mio, perché?
Perché? Dimmi perché, Dio mio. Io non
capisco”. Poi si accorge che mettiamo in fila
solo gli alpini. Dolcemente, ci dice: “Ragazzi,
per favore, non ci sono solo gli alpini, ma
tutti, tutti. Italiani, russi, tedeschi. Tutti,
perché qui ci sono solo creature di Dio”. Al
ritorno gli consegniamo le piastrine. Più tardi
saprò che don Carlo le avrebbe consegnate
casa per casa, nelle vallate degli alpini, visitando
le famiglie dei caduti, una parola di
conforto per tutti».
Rientrato in Italia, Balzari riesce a scampare
al richiamo fatto dalla Repubblica sociale,
dopo l’8 settembre. Collabora coi partigiani.
È a piazzale Loreto, nel 1945. Poi, la pace. Nel
1957, sposa Marisa, di undici anni più giovane.
Hanno una figlia che fa il medico e un figlio
architetto. La moglie muore 23 anni fa:
«È lei il dono più prezioso che ho avuto».