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Don Ciotti e i vent'anni di Libera: "Io non ho paura".

21/03/2015  Don Luigi Ciotti fondatore di Libera fa il bilancio di questi vent'anni con Mario Lancisi. Pubblichiamo un estratto del libro "Cento passi verso un'altra italia". Dialogo con don Ciotti a cura di Mario Lancisi.

Com'è nata l'idea di Libera, quali finalità e quale bilancio vent’anni dopo?
L’idea è nata nell’estate del 1992, l’estate di Capaci e divia D’Amelio. La molla è stato il desiderio di fare qualcosadi più, di non cedere allo sgomento, alla rabbia, alla rassegnazione.L’idea di Libera prende forma in quei giorni, mala sensibilità e l’attenzione sulle mafie risale almeno al decennioprecedente, funestato da tanti fatti di sangue – mivengono in mente, tra i tanti, l’omicidio di Carlo Albertodalla Chiesa e di Rocco Chinnici a Palermo, quello di BrunoCaccia a Torino – così come era già forte in me la stima perquanti operavano in contesti così difficili, segnati dalla presenza mafiosa. Libera nasce del resto sulla scia dell’esperienzadi «Narcomafie», il mensile di approfondimento che il Gruppo Abele pubblica dal febbraio del 1993, e sindall’inizio si pensa non come una struttura rigida, un contenitore,ma una realtà trasversale, a cavallo di mondi e sensibilità diverse, nella convinzione che la dignità e la libertà sono beni di tutti che noi tutti dobbiamo promuovere e tutelare. Quanto ai bilanci, abbiamo cercato di fare la nostra parte, coi nostri limiti e i nostri errori. I bilanci servono sesono onesti, se non sono “falsi in bilancio” morali, se sonooccasioni di crescita, stimoli a fare di meglio e di più. A motivarli è la consapevolezza che a parlare, alla fine, saranno i fatti, i segni che hai lasciato nelle vite degli altri, il modo in cui hai sostenuto le loro speranze e difeso i loro diritti.

Quali legami ci sono tra Libera, il Gruppo Abele e la sua esperienza di sacerdote?
Prima ancora che un legame c’è un minimo comune denominatore che si chiama giustizia sociale e che nella mia esperienza di sacerdote è il saldare la terra con il cielo. IlGruppo Abele è nato prima che diventassi prete, ma già allora incontravo Dio nelle fatiche e nelle speranze delle persone. Quest’attitudine – o, per dirla in termini di Chiesa,“vocazione”– fu pienamente compresa da una persona acui devo molto, l’arcivescovo di Torino padre Michele Pellegrino, che quando mi ordinò sacerdote, nel 1972, mi permise di continuare il mio impegno nelle strade. La strada è stata la mia parrocchia, la mia maestra di fede e di vita. Mi ha insegnato a vedere le persone nella loro unicità, a riconoscere in ciascuna un frammento di Dio, vale a dire unadignità da accogliere, un volto da riconoscere, un nome da chiamare. Ma mi ha insegnato anche l’umiltà e la coscienza dei limiti, mi ha fatto capire che la speranza non può essere disgiunta dall’impegno, così come la giustizia dal cammino per realizzarla. Questo ha voluto dire saldare la Terra col Cielo, avendo come punto di riferimento innanzitutto il Vangelo ma anche la Costituzione. C’è molta “politica” nel Vangelo quando denuncia i soprusi, le violenze, le ipocrisie.E c’è molto Vangelo nella Costituzione là dove stabilisce l’eguale dignità delle persone e il loro diritto a vivere inpace e giustizia. All’inizio la Chiesa come ha reagito alla nascita di Libera? Libera raccoglie sin dall’inizio molte espressioni diChiesa, nella convinzione che l’impegno sociale debba includere, accomunare, far tesoro di diversi riferimenti culturalie spirituali. Quanto alle reazioni, non c’è stata, comeè naturale, uniformità. Anche la Chiesa, del resto, è fattadi tante “Chiese”, tante sensibilità, tanti modi di vedere ilmondo e la Chiesa stessa. Così ci sono state espressioni d’incoraggiamento e di sostegno, come c’è stato, in alcune circostanze, un atteggiamento più freddo, prudente e talvoltaun pizzico diffidente, come di chi sta alla finestra e aspetta l’evolversi delle cose prima di farsi un giudizio. Ma queste sono cose da mettere in conto… Ho sempre trovato molto bella e vera una frase di Gandhi: «La regola aurea è di agire senza paura in ciò che si ritiene giusto». L’importante è seguire la voce della coscienza, dove il bene personale coincide con il bene di tutti…

Cosa è cambiato tra Chiesa e mafia con l’avvento di papa Francesco?
È ancora presto per dirlo, anche se ovviamente mi auguro che le parole pronunciate di fronte ai familiari delle vittime delle mafie, nel marzo scorso a Roma, e poi quelle in Calabria, a Cassano allo Ionio, dove Francesco ha definito la ’ndrangheta «adorazione del male e disprezzo del bene comune» e ne ha scomunicato i membri e i complici, segninoun punto di non ritorno. È bene ricordare, peraltro, che anchein passato la Chiesa si era espressa con forza contro lemafie. Di solito si ricorda il grido di Giovanni Paolo II dallaValle dei Templi nel 1993, o le parole di Benedetto XVI nel2010 a Palermo. Ma bisognerebbe sapere che già all’inizio del ’900 don Luigi Sturzo disse della mafia che «ha i piedi in Sicilia, ma la testa forse a Roma» e poi, con impressionante profezia «diventerà più crudele e disumana; dalla Sicilia risalirà l’intera Penisola per portarsi anche al di là delle Alpi». Così come andrebbe ricordato l’intervento di Paolo VI attraverso la segreteria di Stato vaticana dopo la stragedi Ciaculli nel 1963, affinché la Chiesa siciliana promuovesse «un’azione positiva e sistematica […] per dissociarela mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa eper confrontare questa a una più coerente osservanza deiprincìpi cristiani…». Così come non si può dimenticare il più recente impegno di figure che hanno saputo scuoterele coscienze, da Salvatore Pappalardo ad Antonio Riboldi, da Italo Calabrò a Raffaele Nogaro. Ciò detto, l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi delle mafie è stato spesso distratto, se non tollerante o perfino complice. In questo ha contato, al di là delle singole circostanze, una concezione della fede avulsa dalle responsabilità sociali e civili, e dunque dal dovere di denunciare la mafia come radicale negazione del Vangelo. Tutto questo ha offeso la memoria di padre Puglisi, di don Diana, di don Cesare Boschin e di altri preti che hanno pagato con la vita la fedeltà al Vangelo come pure l’impegno di tanti uomini e donne di Chiesa che operano in territori delicati e non offrono il fianco alle ambiguità mafiose, per quanto camuffate di devota religiosità. C’è da augurarsi che le parole del papa su mafiae corruzione cancellino per sempre quelle ombre, anchese sarebbe ingenuo, oltre che ingiusto, caricare il papa ditutte le nostre aspettative. Come guida spirituale che toccai cuori e le menti anche dei non credenti, Francesco può indicarci un cammino, ma il percorrerlo è nostro impegno, nostra responsabilità. È vero, d’altro canto, che la sua denuncia del crimine mafioso aggiunge qualcosa di prezioso alle precedenti, perché s’inserisce in una più complessiva denuncia delle logiche di sfruttamento che inquinano moltiaspetti della vita sociale e trovano nell’economia del profitto l’espressione più evidente. Francesco ha colto benissimo il nesso tra le mafie e un’economia di rapina, separata dalla vita e dai bisogni delle persone, colpevole di disuguaglianze sempre più inaccettabili. Il suo è un grande disegno al tempo stesso etico, sociale, politico e spirituale, volto adaffermare la dignità inviolabile della persona contro la sua riduzione a numero, a strumento, a proprietà.

In un’intervista lei ha detto che parole come “antimafia”sono abusate e vanno cambiate: perché?
Perché appunto se n’è fatto un abuso, un uso improprioe strumentale. E non parlavo solo di “antimafia” ma anche,ad esempio, di “legalità”, di “noi”, di “società civile”. C’è tutto un alfabeto dell’impegno che va ripensato, scrostato, rianimato da pratiche vere, autentiche, coerenti. Tornando, è una parola ormai carica di un’ambiguaretorica, talvolta copertura di attività non proprio specchiate. C’è chi su quelle parole si è costruito una falsa reputazione, quindi il sospenderle, o almeno il farne un uso più sorvegliato, potrebbe aiutarci a smascherare i furbi che si annidano anche nei nostri mondi. In occasione degli “Stati generali dell’antimafia”, lo scorso ottobre a Roma, ho sottolineato il fatto che occorre aprire strade nuove, e non mi riferivo solo alle strategie contro le mafie ma alla natura delnostro impegno. La lotta alla mafia non è una carta d’identità. È un fatto di coscienza che non richiede né celebrazioni né ostentazioni. Legge 109/96: un bilancio. Cosa funziona e cosa va cambiato?Il bilancio è sotto molti punti di vista positivo. La legge109 è stata una svolta non solo nella lotta alle mafie ma nellacoscienza che abbiamo delle mafie. Oggi è più diffusa la consapevolezza che per contrastarle non bastano la magistratura e le forze di polizia, che pure fanno moltissimo: tuttinoi possiamo e dobbiamo impegnarci per estirpare un maleche è sociale oltre che criminale. La legge sull’uso sociale deibeni confiscati ha veicolato questa consapevolezza e questoimpegno, il che non esclude che sia uno strumento da migliorare e da usare in tutte le sue potenzialità. Innanzitutto l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e destinazionedei beni confiscati andrebbe dotata di maggiori risorse ecompetenze.

Lei vive sotto scorta e pesantemente minacciato. Provamai paura, voglia di mollare e che cosa la spinge in un impegno così totale?
Il senso di responsabilità e le speranze che abitano il miocuore sin da giovane. Il che non esclude momenti di stanchezzae difficoltà. Non direi di paura, e non perché sia incoscienteo temerario, ma perché non do peso alla mia vicendapersonale. L’io è soltanto un mezzo, non un fine. Il fine è la giustizia sociale. Le minacce più grandi non sono quelle dei boss, ma i ritardi, le inerzie, i compromessi nel realizzarla.

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