Famiglia Cristiana n.1, in edicola e in parrocchia da mercoledì 31 dicembre.
Come sempre, Famiglia Cristiana ha scelto il suo Italiano dell'anno: per il 2014 è don Luigi Ciotti, il sacerdote che ha fondato il Gruppo Abele e Libera e che per il suo impegno a favore della giustizia e della legalità vive minacciato dalla mafia. Qui di seguito le motivazioni della scelta in un articolo del direttore don Antonio Sciortino e una parte dell'intervista a don Ciotti pubblicata nel numero di Famiglia Cristiana 1/2015, in edicola e in parrocchia a partire da mercoledì 31 dicembre.
di
don Antonio Sciortino
Di fronte alla rassegnazione che non ci sia nulla da fare contro la
corruzione,
e di Libera, da anni si batte per risvegliare le coscienze assopite di tanti cittadini
la
mafia e l’
illegalità diffusa, don
Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele
che peccano di “omissione”, assistendo inerti al degrado etico e sociale
del Paese.
Per risollevare le sorti dell’Italia è importante l’opera di educazione
che egli fa nelle scuole, coinvolgendo le famiglie, gli insegnanti
e la stessa Chiesa, così da “saldare la terra col cielo”, come
ama ripetere.
Non tutto è disastro nel Paese, basta unire
le “forze positive”, c’è tanto bene in giro, che però va fatto
conoscere.
La
Costituzione italiana e il
Vangelo sono
i capisaldi di un riscatto morale possibile, cui don Ciotti
ha dedicato l’intera vita, messa ora in serio pericolo dalle
minacce della mafia.
Per noi di Famiglia Cristiana è l’Italiano
dell’anno per il coraggio e la capacità di coinvolgere credenti
e non credenti a reagire all’impotenza in cui versa l’Italia.
In lui ci riconosciamo e si riconoscono tutti i cittadini onesti
che amano davvero il Paese. E non vogliamo che si senta solo
o isolato di fronte allo strapotere delle mafie.
L'intervista a don Ciotti
di don Antonio Sciortino (ha collaborato Alberto Chiara)
A un certo punto prende in
mano una versione inglese
della Bibbia, stampata
nel Regno Unito, venduta
in Nordafrica, finita sul
fondo del Canale di Sicilia
nella sacca di un pover’uomo
alla ricerca di
un futuro migliore. «Me l’ha regalata
un pescatore. È tutto ciò che resta di
un immigrato maghrebino morto
durante la traversata. Sai, spesso l’appoggio
sull’altare quando celebro. Ci
ricorda tutti i crocifissi di oggi».
Abita un’ex fabbrica metalmeccanica,
vive la storia e distilla speranza,
don Luigi Ciotti. Un vezzo, l’unico:
«Sono un montanaro, da sempre
iscritto al Club alpino italiano, sezione
Pieve di Cadore». Un amore, su tutti:
«La Parola di Dio, che mi orienta
e mi dà forza». Una compagnia di
viaggio la più variegata ed eterogenea
possibile: dai tossicodipendenti alle
prostitute, dai malati di Aids alle vittime
dell’usura e a quelle della mafia. Si
accinge a vivere un anno, il 2015, ricco
di anniversari, don Ciotti: «Il Gruppo
Abele compie 50 anni, Libera 20 e io,
sommessamente, ne faccio 70, il prossimo
10 settembre».
La sede in cui ci riceve, in corso
Trapani, a Torino, era una volta la
Cimat, un’azienda specializzata nella
produzione di macchine utensili:
«Chiuse definitivamente i battenti nel
1976, l’allora arcivescovo, il cardinale
Michele Pellegrino, solidarizzò con i
dipendenti». Del passato operaio rimangono
certe attrezzature a vista.
Il salotto in cui riceve è attiguo alla
cucina, giusto un tavolo e una credenza.
Tra libri e foto di famiglia, la camera
da letto custodisce anche una manciata
di coloratissime stole, alcune arrivate
dall’America latina, più una bianca:
«Era di don Tonino Bello, il vescovo
profeta della pace, amico dei poveri».
- Per Famiglia Cristiana sei l’italiano
dell’anno.
«La cosa mi imbarazza, sai...».
- È il nostro modo di dire che apprezziamo
il tuo stile di stare accanto
a chi non ha voce né diritti.
«Sono un prete...».
- Già, prete di strada...
«Prete e basta».
- Perché hai scelto di diventare sacerdote?
Cos’è cambiato nel vivere il
tuo ministero in questi anni?
«Vocazione è essere scelti, molto
più che scegliere. È aderire a qualcosa
che riguarda la parte più profonda del
nostro essere. La vocazione è una voce
che chiama e che chiede una risposta.
Ed è perciò anche una responsabilità.
Io credo di essere stato prete ancora
prima di diventarlo nei fatti. Poi, ovviamente, c’è modo e modo d’interpretare
e vivere l’essere preti, il tuo incontro
con Dio e con gli altri».
- C’è qualche persona, in particolare,
che ha segnato la tua vocazione?
«Io ho avuto la fortuna di contare
su due grandi vescovi, Michele Pellegrino
e Anastasio Ballestrero. Così
come su altri grandi figure che mi
hanno arricchito con il loro affetto e
la loro amicizia: don Franco Peradotto,
padre Turoldo, don Tonino Bello.
Quanto al mio “ministero”, si è lasciato
plasmare dalla vita delle persone,
dai loro bisogni e dalle loro speranze.
Come persona, come prete e come cittadino,
io sono quello che le relazioni
con gli altri hanno fatto di me. Il Vangelo
è stato il mio riferimento, la cartina
di tornasole della mia coerenza,
della mia autenticità, senza dimentil’espressione
“prete di strada”. Nell’essere
prete è insita la dimensione della
strada, del cammino, dell’incontro,
della ricerca. Il panorama della strada
è cambiato, sono cambiati volti e problemi.
Non è cambiato il bisogno di dignità
delle persone, non è cambiata la
loro speranza di libertà».
La strada in fondo pone sempre
alla coscienza una domanda molto
scomoda: come fare – anzi cosa puoi
fare – affinché tutte le persone abbiano
accoglienza, abbiano una casa, un
lavoro, una dignità, siano chiamate
per nome, non siano un numero, una
cosa, una merce?
«Questa è la domanda fondamentale
della strada. Ed è una domanda
che tendiamo a eludere. Fingiamo di
non sentire, di non vedere. Altrimenti
la strada non sarebbe sempre così
care la Costituzione, perché ho sempre
creduto che l’essere prete voglia dire
tenere insieme terra e cielo, la dimensione
spirituale e l’impegno civile, carità
e affermazione dei diritti».
- Tossicodipendenti, malati di Aids,
vittime della mafia e dell’illegalità:
da sempre scegli compagni di viaggio
“scomodi”.
«La strada è il Vangelo. Sono indissolubili.
Per questo non mi piace l’espressione
“prete di strada”. Nell’essere
prete è insita la dimensione della
strada, del cammino, dell’incontro,
della ricerca. Il panorama della strada
è cambiato, sono cambiati volti e problemi.
Non è cambiato il bisogno di dignità
delle persone, non è cambiata la
loro speranza di libertà».
- La strada in fondo pone sempre
alla coscienza una domanda molto
scomoda: come fare – anzi cosa puoi
fare – affinché tutte le persone abbiano
accoglienza, abbiano una casa, un
lavoro, una dignità, siano chiamate
per nome, non siano un numero, una
cosa, una merce?
«Questa è la domanda fondamentale
della strada. Ed è una domanda
che tendiamo a eludere. Fingiamo di
non sentire, di non vedere. Altrimenti
la strada non sarebbe sempre così piena di disperazione, di smarrimento,
di bisogni non raccolti. L’aspetto
che più balza all’occhio, rispetto a
quando ho cominciato la mia storia di
prete, è che la strada, allora, era segnata
soprattutto da emarginazione, fatica
esistenziale, malattie, dipendenze».
- Oggi non solo da quelle.
«Oggi ci sono interi pezzi di società
che non hanno più i mezzi materiali
per vivere con dignità. Che sono
stati “sfrattati”. Che non hanno più
cittadinanza. Non è un segno di progresso.
Siamo andati senz’altro avanti
nel campo delle tecnologie, delle telecomunicazioni,
delle scienze. Ma nel
campo dell’umanità, dell’accoglienza,
del rispetto della diversità, dei diritti,
della uguaglianza, c’è stato un regresso,
un tradimento degli ideali che dovevano
plasmare il mondo all’uscita
dall’ultima guerra mondiale. Se si leggono
la Costituzione e la Dichiarazione
universale dei diritti umani, e poi ci
si guarda intorno, non si può non provare
un senso di vergogna».
- Com’è cambiata l’Italia?
«Pensavo ovviamente anche al nostro
Paese dicendo queste ultime cose.
Non ha molto senso fare paragoni,
perché ogni tempo, ogni epoca ha le
sue caratteristiche, le sue peculiarità.
Certo è che l’Italia a un certo punto
ha smesso di crescere. Ma attenzione,
non parlo di crescita economica, di
prodotto interno lordo – che è l’unica
“crescita” alla quale sembra diamo importanza
– ma di crescita culturale, di
coscienza di sé e delle proprie responsabilità.
L’attuale crisi è economica
nelle conseguenze, ma culturale ed
etica nelle premesse. Nasce dal modo
in cui viviamo il nostro essere cittadini, il nostro essere parte di una società
e di una comunità. Nasce dall’indifferenza
e dal cinismo, dall’idea molto
diffusa che l’interesse individuale – o
di piccole cerchie e corporazioni – sia
contrapposto al bene comune. Nasce
dalla corruzione, che è la malattia del
potere e del possesso».
- Il malaffare ha purtroppo contraddistinto
anche il 2014...
«Il quadro nell’insieme non è positivo,
non è rassicurante. Ma la lucidità
di analisi deve implicare l’impegno e
dunque la speranza. È troppo comodo
denunciare quello che non va e poi
starsene con le mani in mano. Siamo
tutti “professori” quando c’è da criticare.
Ma la giusta critica, la giusta analisi,
devono poi tradursi in impegno, in
responsabilità. E sotto questo profilo
vedo dei segni positivi, in particolare nei giovani, che si ribellano all’idea di
un mondo fatto su misura dei ricchi,
dei potenti, dei privilegiati e dei raccomandati,
un mondo per pochi dove
gli altri devono stare fuori dalla porta
e arrangiarsi. Primo Levi parlava della
crudele logica selettiva dei lager, di
“sommersi e salvati”. Ma attenzione,
che anche nel nostro mondo si stanno
formando dei piccoli lager dove finisce
la disperazione delle persone escluse».
- Siamo una società con un tasso
crescente di esclusione...
«La società dell’io non è una società.
È una coabitazione d’individui
legati se va bene da un interesse. Non
amici, ma complici. Uniti quando l’interesse
è comune, nemici quando è
contrapposto. Alla fine si torna sempre
lì, al rapporto umano. La qualità
della vita sociale è data dallo spazio che diamo agli altri nella nostra vita.
Per questo l’incontro con la diversità,
l’interazione (non l’integrazione, l’assimilazione)
con le persone immigrate,
il reciproco scambio umano e culturale
sono una grande opportunità di
crescita per costruire una società più
giusta e più umana».
- Com’è cambiata la Chiesa?
«Occorre sottolineare che la Chiesa è fatta di tante chiese, di tante sensibilità, tanti modi di vivere la fede e di praticare il Vangelo, quindi sarebbe presuntuoso da parte mia giudicare un processo così vasto e complesso. Posso però dire che in questi decenni il grande rinnovamento del concilio Vaticano II, la speranza di una Chiesa del mondo e per il mondo, presente nella storia non tanto per affermare o difendere la dottrina, ma per farne strumento di Vangelo, cioè di liberazione dell’uomo anche su questa terra, si è tenacemente fatto strada, nonostante gli ostacoli, le resistenze, le interpretazioni al ribasso».
- Chi si appella alla tradizione giudica ciò sovversivo, rivoluzionario...
«È semmai un ritorno alle origini, alla sobrietà e alla povertà del Vangelo. Cioè a una Chiesa che non sia fine, ma mezzo, che sia al servizio di tutta l’umanità, senza chiedere certificati d’idoneità. Una Chiesa che accoglie e che va a cercare le persone accolte. La Chiesa che ci chiede di costruire, papa Francesco la definisce così: «Non una dogana, ma la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa ». Il Papa ha messo al centro della riflessione il tema del potere, un tema su cui anche la Chiesa e tutti i credentante ti sono chiamati a riflettere perché la fedeltà al Vangelo si misura anche in termini di spoliazione, di rinuncia al potere e all’avere. L’autorevolezza spirituale, inseparabile dall’etica, viene da quello che si è e si fa, non da quello che si mostra di essere. Credo che come preti, come cristiani, dobbiamo aiutare il Papa in questo progetto, perché è indubbio che anche la Chiesa ha bisogno di purificarsi, di cambiare profondamente quanto ad assetti, codici, procedure di gestione e, duole dirlo, lussi e sfarzi inaccettabili».
- Com’è cambiata la tua vita dopo le minacce della mafia?
«È più complicata nell’organizzazione, non nella sostanza. Quelle minacce erano da mettere in conto. Alle mafie – e ai loro complici – disturbano soprattutto due cose. Che gli vengano confiscati i soldi, le proprietà illegittime. E che vengano realizzati progetti che educhino alla coscienza critica e alla responsabilità, cioè a una vita libera, irriducibile al sonno della coscienza, all’indifferenza che fa il gioco delle mafie e della corruzione. Ora il punto è che Luigi Ciotti è solo una piccola persona che cerca d’impegnarsi in questo senso, ma insieme a lui ci sono migliaia di persone. Quelle minacce dunque non colgono il segno, perché una persona puoi minacciarla e credere di fermarla, un movimento e un impegno collettivo no».
- Con don Gino Rigoldi e don Virginio Colmegna dalla Statale di Milano hai ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione. Un’occasione per riflettere sulla forza, e sulla responsabilità, della parola...
«È un problema enorme. Posso sintetizzare così: oggi la forza della parola è inversamente proporzionale alla sua responsabilità».
- Viviamo un’epoca di moltissime parole. Quante di queste sono “connesse” con la vita, con la ricerca di verità? Quante sono utilizzate per illuminare la conoscenza e la coscienza, e quante invece per addormentarla, per distrarla creando facili illusioni?
«È una malattia, quella della parola, che tocca più ambiti della vita, ma che nei luoghi del potere – la politica, l’economia, l’informazione – può avere esiti disastrosi, perché se il potere non cerca la verità o dice altro al posto della verità, ci sentiamo autorizzati a credere che non esiste giustizia, e che la forza prevale sul diritto. Una parola staccata dalla vita e dalla ricerca della verità è una parola screditata, una parola inaffidabile. Per questo dobbiamo riscoprire la responsabilità della parola e smascherare l’inganno delle parole. Il che significa innanzitutto imparare di nuovo ad ascoltare, a mettersi nei panni degli altri, a ridurre un po’ questo “io” gonfio di parole. L’ascolto viene prima del parlare, come il leggere viene prima dello scrivere.
(30.12.2014)